La vita in 18 metri. Una cronista sta dove le cose accadono

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Abdul, Mattew, Dao, Romeo e Joan sono quattro delle 59 persone recuperate il 4 luglio nel Mediterraneo centrale dalla barca di Mediterranea Alex&Co. Poco dopo aver incontrato il relitto di un gommone senza neanche un’anima salva.
Li incontro, qualche giorno dopo lo sbarco, nella via principale di Lampedusa. Loro sono alcuni dei ragazzi del Cameroon saliti su quel gommone azzurro – così come riferito da tutti i 59 inizialmente ammassati sulla Alex – alle 23 del 3 luglio e partiti da una delle solite spiagge libiche dove i trafficanti continuano a singhiozzo a perpetrare il loro mercimonio di esseri umani.
Il giorno dello sbarco Dao, era scoppiato in un inconsolabile pianto liberatorio in diretta quando ha visto la terra di Lampedusa ormai a pochi metri. Continuava a ripetere che noi non potevamo mai immaginare cosa voleva dire per lui avere finalmente la certezza di non dover ritornare in Libia. Appena ci ha visti passeggiare sul corso ci è venuto incontro a braccia aperte senza smettere di stringere me e il cameraman. Tutti e quattro indossano gli stessi abiti puliti forniti dagli operatori del l’hotspot di Contrada Imbriacola, che lentamente viene svuotato dopo il sovraffollamento degli ultimi giorni. Non ci sono solo loro ma almeno altri 150 arrivati da soli con barchini da Tunisia e Libia.
Mattew sta parlando al telefono con un parente al quale dice che sta bene: poi scoppia in lacrime quando gli dicono che la mamma è fiera di lui. Romeo è il più grande d’età: lo si capisce da un accenno di barba sale e pepe. È alto quasi due metri e si deve chinare per chiedermi dove può trovare a Lampedusa un libro di italiano. Lui parla tre lingue ma non la nostra e – mi dice – non si può vivere in un paese senza comunicare con gli altri. Senza poter spiegare a chi ti ospita perché sono arrivato fin qui. Sono certa che troverà quello che cerca all’Archivio Storico di Lampedusa dove si fornisce ai nuovi arrivati gli strumenti necessari per capire dove sono e come muoversi in un paese straniero di cui conoscono tanto poco. Gli mostriamo l’ingresso che al momento è chiuso ma se avrà modo di tornare dopo le 18, troverà anche un libro di grammatica italiana.
A loro chiedo notizie degli altri: soprattuto di Ousman, Maryam e della loro piccola Jasmine. Stanno tutti bene anche il piccolo (o la piccola) che Maryam porta in grembo e che per la prima volta in vita loro hanno visto senza celato stupore nella pancia della mamma con l’ecografo portato a bordo dai medici della ong spagnola Open Arms venuta a supportare l’equipe della Alex.
È più sereno anche James, il ragazzo somalo che ha raccontato di essere fuggito da Tajoura subito dopo il bombardamento che ha ucciso decine di prigionieri africani, e di essere riuscito a prendere quel gommone a Zawiyah. Aveva tentato altre 4 volte e per quattro volte era stato riportato in prigionia.
Spero stia bene anche Ismail, un ragazzino di 15 anni alto alto con un viso da bambino: un occhio semichiuso per le percosse subite da quello che chiama il suo “patron” libico. Lo aveva comprato come schiavo per lavori pesanti ma non gli bastava: quel volto da bambino in un corpo da adulto aveva stimolato nel “patron” desideri di altro genere nei suoi confronti. Ismail sulla barca stava male, molto male. Aveva forti mal di testa e chiamava la dottoressa alla quale mi univo per fare da traduttrice dal francese: ripeteva ossessivamente sempre questa frase: ” il voulait coucher avec moi ! ” . Quando ha tentato la fuga, è stato picchiato, picchiato e ancora picchiato. Finché un colpo gli ha compromesso un occhio e il padrone libico lo ha messo su un gommone per toglierselo di torno. È stato il primo ad essere evacuato dalla Alex appena arrivata al porto di Lampedusa. Non ha nessuno a cui fare riferimento in Europa come altri a cui abbiamo chiesto se hanno qualcuno da contattare nel Vecchio Continente.
Sembra stiano bene anche le 11 donne: anche Danielle che appena a bordo mi ha chiesto di poter andare in bagno per cambiare l’ enorme assorbente che aveva raccolto le perdite dovute alla ripetuta violenza sessuale subita. Alle 2 del mattino del 7 luglio, dopo ore di attesa, i 46 erano ancora a bordo della Alex ormeggiata al molo Favarolo e Danielle mi raccontava la sua storia ringraziando chi l’aveva sottratta alla Libia dove – dice – noi neri siamo meno di niente.
Per due giorni su quella barca, dove tutti eravamo allo stremo, dove l’ultimo pasto possibile per 60 persone è stato preparato con i resti della cambusa da noi giornalisti, servito in ciotole ricavate da bottiglie di plastica tagliate a metà e mangiato con le mani, dove non c’era acqua corrente a sufficienza per tutti, dove la situazione igienico sanitaria era inadeguata per la salute di tutti: durante quei due giorni, tra un turno e l’altro in coperta, ho sentito ripetere dalle persone salvate “meglio 100 anni su questa barca che un solo secondo in Libia.
Per due giorni ho ascoltato e registrato le storie terribili, a tratti incredibili, di queste persone. È per questo che ho voluto essere a bordo di quella barca, è per questo che la mia testata mi ha voluto mandare. Per documentare cosa accade oggi lì dove non si è mai smesso di mettere a mare vite umane. Perché un cronista, un reporter deve stare lì dove le cose accadono senza distinzione alcuna: perché se non c’è chi racconta queste storie, le persone che le vivono diventano fantasmi.
Alla mia decima missione, in quel tratto di mare – la prime con le navi militari nel 2015 – ho scoperto quanto si sia aggravata la situazione in Libia per i migranti africani e per gli stessi libici: e quanto sia diventato più pericoloso il viaggio. In un mare, nel tratto della zona Sar libica, che appare oggi come un deserto liquido. Perché nessuna imbarcazione vuole trovarsi nella condizione di dover scegliere se soccorrere e subirne le conseguenze o lasciare andare alla deriva uomini, donne e bambini.
Al deserto liquido che è il mare mediterraneo, paragono il deserto intellettuale trovato a terra. Un deserto che ha portato ad attacchi feroci contro i giornalisti che si trovavano a bordo della Barca di Mediteranea,. In particolare la sottoscritta perché, forse, fra le più anziane conoscitrici del fenomeno, vengo dileggiata sui social, infamata anche da parlamentari. Descritta una “crocierista” come se quei giorni non fossero stati un inferno per chiunque li avesse provati. Eppure in quei 18 metri a vela, nel profondo disagio e difficoltà, si è creato un piccolo microcosmo solidale che ci ripaga di ogni infamia a terra.
Non entro nel merito delle indagini sul comportamento del comandante e capo missione della Alex&Co e non entro nella melma virtuale che ha colpito noi tre giornalisti a bordo della barca a vela oggi confiscata in via amministrativa e sequestrata dalla procura di Agrigento. Per quello ci saranno i legali di ciascuno che interverranno nella sede appropriata.
Offese, insulti, tentativi di denigrazione professionale, non sminuiranno mai la gioia di vedere – dopo giorni di fatiche, preoccupazione, volti tesi e paura di non farcela – spuntare il sorriso sul volto di queste persone. Anime salve che dovranno ora affrontare altre prove mai così dure come quella passata.


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