La tutela dei diritti delle persone più vulnerabili è garanzia per ognuno di noi

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Il rispetto dei diritti di tutti. Su questo si fonda uno Stato di diritto. Sempre. Il rispetto della verità dei fatti, della verifica, delle notizie separate dalle opinioni e anche dai sentimenti. Su questo si fonda il diritto-dovere dell’informazione libera e democratica. Sempre.

Due affermazioni apparentemente banali e scontate, ma che tali evidentemente non sono. Lo suggeriscono i fatti legati all’uccisione del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, fatti che ancora una volta ci ricordano che i diritti non sono dati una volta per tutte: essi vanno tutelati e rafforzati, altrimenti si rischia di perderli e di vanificare le lotte che in loro nome sono state portate avanti da chi ci ha preceduto.

Ce lo dice quella fotografia, scattata dentro una struttura dei Carabinieri, del giovane americano fermato per l’omicidio del vicebrigadiere, bendato e con le mani ammanettate dietro la schiena, alla presenza accondiscendente di alcune persone. Una fotografia che mostra una condotta inaccettabile, al di fuori di ogni regola che il nostro Stato di diritto si è dato e in violazione delle regole europee condivise dall’Italia.

Una violazione ancora più grave perché commessa da chi quelle regole è chiamato istituzionalmente a difendere, in un luogo cui lo Stato esercita il suo monopolio della forza legittima e dove la persona fermata si trova totalmente nella disponibilità dello Stato che, proprio per questo, a bilanciamento di tale ampio e pervasivo potere, fissa a suo favore una serie di garanzie e di diritti. Anche di fronte all’uccisione di cittadini inermi o di tutori dell’ordine. Anche di fronte a eventi drammatici, a stragi, attentati, violenze sulle persone più fragili, siano esse anziani o bambini. Perché le Forze dell’ordine sono al contempo tutori della sicurezza dei cittadini e primi garanti dei diritti delle persone fermate o arrestate. Ciò che preoccupa di quella foto, oltre al fatto in sé, è il panorama di apparente normalità che circonda il giovane bendato: l’episodio non è avvenuto nel segreto di una cella nascosta, ma in un ufficio, davanti a testimoni che avrebbero potuto interrompere, contestare o denunciare.

«Nulla come l’arresto – scrive il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà nella sua ultima Relazione al Parlamento – rappresenta, anche simbolicamente, l’esercizio del potere coercitivo di ogni Stato». È quindi proprio fin da questo primo momento della privazione della libertà che il Garante nazionale vigila, visitando le camere di sicurezza, i luoghi di interrogatorio, analizzando i registri e parlando con le persone fermate.

«Peggio morti che bendati» ha scritto qualcuno, commentando la fotografia. «Ricordatevi di Amanda Knox e del Cermis» hanno scritto altri. L’invito alla vendetta risuona in queste parole, nel tentativo di richiamare a una sorta di diritto penale del nemico, trasformando i singoli cittadini in rappresentanti dello loro Stato di provenienza, dimenticandosi del principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale. Se fossero stati africani, sarebbe stato più facile perché loro sono già considerati il nemico, grazie a una cultura dell’odio che trova nei social e nei media un fertile terreno di coltura. Non a caso nell’immediatezza dei fatti, poco dopo l’omicidio del vicebrigadiere, sono circolate una sequela di notizie non verificate: «maghrebini con le mèche», la «belva nordafricana», «tre marocchini e un francese di origine algerina».

Era già successo altre volte, come nel 2006 dopo la strage di Erba. A salvare Azouz Marzouk, tunisino, il fatto che si trovava a bordo del traghetto durante i fatti. Per i titoli strillati che lo indicavano come colpevole solo il Corriere della Sera avvertì il bisogno dei chiedere scusa. Oggi al più qualcuno ha scelto di cancellare dal proprio sito quegli articoli. Le scuse in un contesto di urla, insulti, incitazioni all’odio, facili quanto false semplificazioni non sono previste.

I media sono un importante mezzo di controllo, quando usati correttamente. La pubblicazione della fotografia del giovane bendato ha permesso di svelare quanto è accaduto nell’ufficio, di denunciarlo, di chiedere che siano immediatamente avviate indagini interne ed eventualmente indagini penali. Ma sono anche un indispensabile strumento di costruzione della comunità, del Paese, del sentire comune, di costruzione della coesione sociale che è alla base di ogni democrazia.

I codici deontologici che l’Ordine dei giornalisti si è dato servono a ricordarcelo, anche nei momenti di concitazione, anche di fronte alla sfida di un’informazione sempre più veloce, anche a discapito degli ascolti.

È in questa prospettiva che il Garante nazionale ha segnalato alla Rai e all’Agcom casi di rappresentazione mediatica di persone raggiunte da provvedimenti giudiziari non rispettose, l’utilizzo di un linguaggio dell’odio nei confronti di persone accusate di reati, richieste di vendette e di annientamento della persona quale risposta al reato, facendo regredire il nostro Paese alla pre-modernità e soprattutto negando i valori costituzionalmente definiti.

La tutela dei diritti vale sempre e vale per tutti, soprattutto per le persone più vulnerabili. La loro tutela è garanzia di tutela di ognuno di noi. Perché chiunque di noi può diventare l’altro, il diverso, il nemico cui applicare tutele minori.

*Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà


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