Genova antifascista in piazza. Le cariche della polizia. Le botte al cronista di Repubblica. Non si vedeva una scena del genere dal G8 del 2001

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C’ero, come molti altri colleghi al lavoro. Io da pensionato, ma non per questo meno attento o lì per rubare un pezzo di lavoro a chi se la sfanga, male, ogni giorno. Perché i giornalisti non hanno il sesso degli angeli (la cronaca continua a piacermi) e l’essere antifascisti non è una colpa. E non necessariamente si è comunisti per essere antifascisti: laici, liberali, libertari come me, moderati sono antifascisti. E se per alcuni la definizione di comunista è un insulto, pazienza per chi la esprime come insulto. Oggi in piazza a Genova c’era la città che non si arrende. Quella particolarmente incazzata (ma non solo) di una fascia (non del tutto) giovanile che è stata sempre in prima fila. In parte sbagliando nel cercare lo sfondamento, ma la provocazione c’era stata con il comizio, fascista, di Casa Pound. Blindato, coperto con qualche funzionario della questura pure perplesso per questo inutile e provocatorio rischio.

In quella fascia da prima fila più dura, degli antagonisti ma non solo, del pericolo black bloc (una decina di vestiti di nero, peccato che l’Ansa pubblichi stasera in home page una foto “simbolo” di un casseur a Genova targando così in modo scorretto l’anima della piazza) non c’erano solo i giovani, gli autorganizzati Slai Cobas, Genova Antifascista, c’erano anche parecchi capelli grigi. Cinquantenni e forse più. Magari da anni fuori dalla mobilitazione. È un dato interessante questo, forse non adeguatamente evidenziato dalle cronache. Eppoi il grosso, della Cgil, Fiom, Arci, Anpi, San Bendetto al porto, Libera e decine di altre associazioni. Un altro dato? La stragrande maggioranza dei giornalisti erano giornaliste, pressoché tutte frelance, partite iva. A correre, a rischiare botte, a respirare i lacrimogeni Cs (quelli vietati dopo il G8 2001 a Genova, ma usati nel pomeriggio con lanci a ripetizione, come documentato dall’avvocatessa Raffaella Multedo che oggi presenterà un esposto in procura con il “bossolo” del lacrimogeno recuperato)

Piazza piena, tesa. Scontro come a Bologna, Firenze, Torino… pressoché inevitabile. E in un momento di calma avviene il pestaggio (le scuse del Questore sono arrivate in tempo quasi reale) del collega Stefano Origone. Fnsi, Ordine, l’Associazione Ligure dei Giornalisti sono andate giù insieme al Gruppo Cronisti. Cosa accade?

Ero, con altri e ci sono decine di foto e di video a testimoniarlo (tanto nessuno sarà identificato, chi opera in piazza in divisa non è riconoscibile da un numero o un codice), all’angolo tra via Assarotti e piazza Corvetto. A sinistra via Santi Giacomo e Filippo. Dal sottopasso escono persone “varie”, una coppia di anziani, una badante con vecchina, alcune mamme con bambini dirette verso via Assarotti. Sul lato opposto c’è un gruppo di manifestanti, fermo, non ci sono scontri in atto. C’è un giovane sottoposto a identificazione. Stefano Origone, cronista de la Repubblica è lì. Non è un matto da corsa, non ha la vocazione dell’eroe, sa come muoversi. È lì che osserva. All’improvviso io odo come un sibilo e dalla doppia fila di poliziotti su quel lato parte una carica a tenaglia che stringe contro il muro del sovrastante giardino il gruppo di manifestanti. Manganellate, calci, pugni. Il gruppo di manifestanti sbanda, poi reagisce, sale le scale del giardino, grida basta, bastardi, lancia sugli agenti le pietre raccolte dal muretto. Una carica incomprensibile in quel momento, alla faccia dell’abusata definizione “carica di alleggerimento”. Stefano è li (le immagini del video che ho girato lo riprendono nella fase finale mentre già ferito viene portato verso via Assarotti da un funzionario di polizia con due colleghe, Katia Bonchi e Andrea Barsanti). Lo salva l’intervento di un funzionario della Questura di Genova che lo conosce.

Stefano cosa è successo? “Marcello, ho preso tante botte, manganellate …calci. Ho urlato sono un giornalista, ma hanno continuato… ho due dita rotte…mi fa male qui” e indica il costato. Stefano è choccato, ha purtroppo due dita rotte, lamenta dolori al costato. Arrivano altre colleghe e colleghi. L’ambulanza. Le scuse del Questore (nel frattempo il pestaggio era in home page di Repubbica, mai visto tanta solerzia nel chiedere scusa…ovvero si sono resi conto di avere pestato una bella cacca). Solita giustificazione. Confusione. Faremo chiarezza. Eccetera. Lasciamo perdere, è un film già visto.

Non si vedeva una scena del genere dal G8 del 2001. E tutto nasce in un momento di relativa calma di un pomeriggio certamente duro, ma nato dalla provocazione del comizio di una raltà che non nasconde il suo fascismo in una città che si ostina, per fortuna, a non essere indifferente. Tanto chissenefrega, no? Al posto di Stefano poteva esserci chiunque altro. Lo dico, sperando di non essere frainteso, ma se il pestato fosse stato un free lance o altro…? Per carità non chiediamo la controprova. 

Di certo il clima è brutto. Le provocazioni si sprecano. E non si può dire, non si può più dire, giornalisti compresi, non si risponde alle provocazioni. Perché non sono più, da tempo, delle mere provocazioni. Stefano continuerà a fare il giornalista con il ricordo di due dita rotte e un po’ di lividi. Non diventerà un eroe, come è giusto che sia. È un giornalista. Un dubbio però mi viene, espresso con un sorriso a Stefano in attesa dell’ambulanza: se non avessi detto che eri un giornalista, forse ne prendevi di meno. Restiamo umani, certo. Ma non per questo miti e indifesi.


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