Europee, voto chiaro ma non fermo: nulla è compromesso e immobile

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Nell’epoca delle vampate emotive, dove ogni elemento è mobile ( liquido significa questo) e veloce, dove ogni giorno vivi inondato di messaggi\informazioni che fanno sembrare preistorici i temi di ieri, anche il consenso elettorale è volatile. Dieci anni fa ( non nel paleolitico) l’Italia era “nelle mani” di Berlusconi, nel 2014 di Renzi, nel 2018 di Di Maio. Oggi tocca a Salvini. Quanto può durare? Intervistato dal Corriere il politologo tedesco Yasha Mounk dice che la Lega sfrutta il “monopolio” che ha sui temi della “sicurezza e del contrasto all’immigrazione illegale”. Vedremo. Tutto scorre così rapidamente. Salvini ha molte promesse da mantenere, i conti pubblici che fanno acqua, le manovre economiche da approvare. Stare sulla cresta dell’onda mediatica logora presto oggi. Dunque non dispererei per ragioni diciamo così “oggettive”. A meno che non accada quello che è successo in Ungheria. Faceva impressione domenica sera vedere che in un solo paese UE su 28 un partito aveva il 56% dei voti con l’avversario più vicino intorno al 10. E’ ancora democrazia quella alla Orban, così simile a quella del suo amico Putin? Per tale ragione, per evitare analoghe derive, è più che mai preziosa l’azione di associazioni come Articolo 21: perché la competizione politica sia corretta occorre che non si crei un altro tipo di “monopolio” ben più pericoloso, quello del controllo dell’informazione e delle istituzioni. Se vogliamo capire cosa dobbiamo fare abbiamo la strada tracciata davanti: evitare scenari ungheresi. Per fortuna siamo ancora lontani, ma la guardia non va abbassata contro chi vuole ridurre il numero di voci libere. Poi su un altro piano anche prospettive tipo Italexit o uscita dall’euro non devono farci paura più di tanto. Sono solo materiale da utilizzare nelle sceneggiate da talk show. Nel Veneto dove la Lega ha preso il 50% ( e dove ha amministratori non certo sprovveduti e la disoccupazione è bassa come in Germania), la produzione industriale (in crescita) è interconnessa all’Europa. Avventure che fanno saltare tutto non se le può permettere nessuno, nemmeno il “capitano” Salvini.

Detto questo, guardiamo “dentro” queste elezioni. E’ vero che la Lega ha vinto pure a Riace e a Lampedusa. Questo non vuol dire che le brave persone che li hanno bene operato siano meno brave. Significa semplicemente che non esistono santuari. Da nessuna parte. I miti aiutano il morale, poi c’è la realtà. E nel cuore di questo voto c’è invece una chiave di lettura profonda che merita di essere colta. Salvini ha vinto sul territorio ( del Nord e del Centro) ma non è “passato” nelle grandi città. Non è primo né a Milano, né a Roma, né a Torino e tanto meno a Napoli. Anche il voto alle comunali ci dice praticamente la stessa cosa: grandi centri urbani, diversissimi fra loro, come Bari e Firenze hanno riconfermato sindaci di centro sinistra con margini amplissimi. Così, persino nel Veneto del 50%, a Padova e Venezia la Lega ha di poco superato il 30.

Cosa vuol dire questo discorso? Il fenomeno è noto e planetario. In Francia la Le Pen vince sul territorio ma scivola fino al quarto posto nelle città, Londra poi è tutt’altra cosa rispetto al Nord dell’Inghilterra. Pure nel Kansas e nell’Ohio le città si esprimono in un modo, i sobborghi in un altro. E allora? Pragmaticamente gli americani assegnano un ruolo alle Università, ai Campus dove circolano idee, iniziative culturali. Noi che ci occupiamo di media potremmo pure ipotizzare che nelle aree urbane ci siano momenti di vita comunitaria\sociale più ricchi di eventi, che liberano i cittadini dalla prigionia della dipendenza televisiva o delle camere dell’eco dei social. Fosse così bisognerebbe allargare lo sguardo al resto del territorio. Resta comunque il fatto che le città esistono, nessuno le può cancellare, ed è da qui che si può ripartire. Ma non facciamola mai troppo semplice: le cose sono sempre complicate. Pochi giorni fa Il Manifesto ha ospitato un’illuminante intervista al sociologo francese Christophe Guilluy. Ha parlato della crisi, dell’impoverimento delle classi medie, della loro espulsione dai contesti urbani, delle forme di lavoro precario e di instabilità permanente, del contrasto fra lavori altamente qualificati e ben retribuiti e i “bullshit job”, l’occupazione insensata e alienante. Chi parla a questa gente dimenticata? Ed è qui il nodo forse più spinoso. Le “classi superiori” che parlano inglese, fanno lavori importanti, vivono ben integrate nel mondo globale. Ma gli altri? C’è una questione sociale che richiede risposte vere al fondo di questa frattura ( che passa pure fra città e periferie intese come territorio diffuso) che andrebbe riletta con proposte innovative e radicali. Lo fanno i Verdi in Germania. Se provate a documentarvi scoprirete che sono quasi tutti molto giovani ( impietoso il confronto con l’Italia), e sono capaci di costruire una loro agenda. Il loro è “l’internazionalismo” di chi pensa al pianeta come casa comune, il “radicalismo” di chi parte dal concreto per arrivare al “generale”. Come consiglia George Lakoff non usano il vocabolario degli altri, non parlano in negativo ma in positivo: progetti, idee, proposte originali, stili di vita. E lo fanno seriamente, sono credibili.

Di cose da fare insomma ce ne sarebbero parecchie pure da noi. Certo subiamo la debolezza di un’offerta politica che pensa poco e propone ancora meno un po’ per miopia, un po’ perché subornata dalla sottocultura tv, un po’ per conservare piccoli spazi di potere. Ma la storia va comunque avanti. E in Europa per fortuna non siamo soli e “nella loro storia” i popoli europei si sono sempre contagiati a vicenda. Non immaginiamoci perciò in questa fine maggio 2019 in un mondo fermo, in una situazione compromessa e immobile. Tutto si muove invece, sempre.


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