Dalla parte dei sommersi

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Si è aperto ieri a Latina e prosegue oggi a Roma il XXII congresso di Magistratura democratica che si interroga su “il giudice nell’Europa dei populismi: dalla parte dei sommersi.” Come ha precisato il suo presidente, Riccardo De Vito, il titolo: “non vuole rappresentare esclusivamente la nostra attenzione sulle politiche migratorie, vuole rappresentare il fatto che il diritto è una scienza delle relazioni umane e all’interno delle relazioni umane chi ha più bisogno di essere tutelato sono i sommersi in ogni campo, le persone più deboli, i marginali, i migranti ma anche i lavoratori sommersi (..) lo sforzo della giurisdizione è quello di tutelare i diritti delle persone a prescindere dallo stato sociale, dall’appartenenza etnica, dagli abiti che vestono”.

Nella sua relazione introduttiva la Segretaria, Maria Rosaria Guglielmi, ha aperto una finestra sulle patologie dello spirito pubblico (una storia interrotta), riferendosi al percorso della democrazia italiana che in pochi mesi ha cambiato volto. Sono patologie che sono sempre esistite ma, non v’è dubbio che con l’avvento dei populismi si è verificato un vero e proprio salto di qualità, che ci sta facendo planare su un territorio estraneo alle nostre tradizioni costituzionali in cui è messo in discussione il volto stesso dalla Repubblica e la natura della legalità. Proprio sul terreno della legalità si sta giocando una sfida importante.

All’inizio dell’anno il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha contestato alcuni effetti perversi del c.d. decreto sicurezza, osservando che: “in un quadro di riferimento che alimenta, col contribuito di questo governo, l’odio verso i diversi, il decreto 132/2018 costituisce un esempio di provvedimento disumano e criminogeno.” A fronte della contestazione di Orlando, il Ministro dell’Interno ha alzato l’usbergo della legalità, osservando che il decreto emanato dal suo Governo è stato approvato dal Parlamento e promulgato dal Presidente della Repubblica e quindi è una legge perfettamente legale, come del resto erano perfettamente legali le leggi razziali del 1938.

Sulla legalità si è aperta una contraddizione sulla quale tutti siamo chiamati a riflettere. La domanda è: possono avere cittadinanza nell’ordinamento giuridico provvedimenti legislativi o condotte amministrative disumane? Un provvedimento che incide su diritti fondamentali di determinate categorie di persone, come il divieto di sbarco dei naufraghi recuperati in alto mare, o peggio ancora il divieto di attivare operazioni di soccorso mascherato dietro la finzione della SAR libica; la persecuzione della navi umanitarie che svolgono quelle funzioni pubbliche che gli Stati non vogliono più compiere; le norme discriminatorie che tendono a rendere deteriore la condizione umana di centinaia o migliaia di persone, possono integrare la legalità in un ordinamento fondato sulla Costituzione e sulle Carte internazionali dei diritti umani?

La legalità nel nostro paese è frutto di un processo storico che trae il suo fondamento dalla svolta operata dall’umanità dopo la seconda guerra mondiale. Con la Carta delle Nazioni Unite, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e con le Costituzioni democratiche è stata innestata in modo inscindibile nell’ordinamento giuridico una tavola di valori universali; per semplificare potremmo dire che è stata operata una saldatura fra il diritto e la giustizia.

Oggi siamo entrati in una fase nuova perché il decisore politico rivendica l’esercizio dell’”auctoritas”, completamente avulso dalla “pietas” (il problema non riguarda solo i migranti ma tutti gli ambiti della vita civile). Oggi più che mai è diventato d’attualità il conflitto intorno alla natura della legalità. L’oggetto di questo conflitto è il tentativo di scardinare dall’ordinamento giuridico la tavola di valori ad esso inscindibilmente connessa, in tal modo mutando la natura del diritto (e della legalità), separandolo dalla giustizia e restituendolo alla dimensione del mero arbitrio del sovrano.

Il tema della legalità chiama in causa il ruolo del giudice e interpella il significato profondo della giurisdizione, poiché non può essere revocato in dubbio che la tutela, la conservazione e la restaurazione della legalità sia la ragion d’essere della funzione giudiziaria. Allora la domanda è: quale legalità? Purtroppo noi dobbiamo constatare che questa nuova concezione della legalità svincolata dall’umanità è penetrata anche nel fortino della magistratura.

Quando si sequestrano le navi della ONG con l’incolpazione di violenza privata per aver costretto l’autorità politica a subire lo sbarco dei naufraghi recuperati in mezzo al mare; oppure di aver svolto il ruolo degli untori di manzoniana memoria per aver diffuso la peste portata dai vestiti dell’immigrato; oppure si chiede l’archiviazione di comportamenti illegali considerandoli scriminati dall’esercizio del potere politico si diventa strumenti di questa politica e fattori di immutazione della legalità. Su questo punto occorre una risposta netta: c’è una sola legalità, quella che ci è stata consegnata dalla Resistenza, nella quale la “pietas” e l’ ”auctoritas” non possono essere separate. Questa è la stella polare che deve orientare l’esercizio del potere giudiziario da parte di ogni singolo magistrato.


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