Dogman: Matteo Garrone e la sconfitta del drago

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Era una fredda mattina di febbraio a Roma, tirava una tramontana ghiacciata quando la città s’era svegliata con quel brivido di orrore lungo la schiena, diverso da tutte le storiacce che giravano da sempre nella Capitale, ormai materiale da cantastorie: da er fattaccio del vicolo del Moro al delitto Bebawi. Lo splatter per la prima volta tracimava nella vita quotidiana dalle cronache dei giornali, e aveva un nome da obbrobrio: Er canaro.  In romanesco è chiamato così, con una pennellata di svilimento, il tolettatore dei cani. Le versioni che giravano sulle imprese di questo scellerato erano raccapriccianti: s’era vendicato di un suo nemico imprigionandolo nel negozio e  facendolo a pezzi, lentamente, fino a una morte avvenuta come un sollievo da scempi e supplizi indicibili. L’aguzzino gli aveva mozzato dapprima le dita con delle cesoie, bruciando i monconi con la fiamma ossidrica per cauterizzarli, e via via aveva segato le braccia, i piedi e le gambe, riducendolo a un troncone, gli  aveva abbrustolito il viso e gli occhi, fracassato a martellate le testa, l’aveva evirato e soffocato con i suoi stessi testicoli. Il caso disumano e cruento aveva affatturato la città, non si parlava d’altro, e di bocca in bocca le efferatezze si amplificavano, lo scenario si ingigantiva: il negozio, piastrellato, era stato trovato completamente ricoperto di sangue, ma i vicini non avevano potuto udire le urla di strazio perché il canaro, all’anagrafe Pietro De Negri, aveva alzato al massimo il volume dello stereo. E poi nel quartiere erano abituati ai latrati dei cani che risuonavano cupi e minacciosi da quella stanzaccia.

Nonostante l’impennata di violenza che s’era registrata nel cinema in quegli anni, il cittadino veniva messo di fronte a un film horror in diretta, dal vivo, non una storia inventata e realizzata con trucchi scenici ed effetti speciali. Era il 1988 esattamente trenta anni fa. Ed ecco che quella storia torna a vivere in un’opera di Matteo Garrone, aggiornata ai nostri tempi e con titolo inglese, Dogman, che al festival di Cannes appena concluso è stato insignito con la Palma d’Oro al protagonista Marcello Fonte, un interprete preso dalla strada. Chissà se la memoria di Garrone è andata a Straw Dogs (Cane di Paglia) di Sam  Peckinpah con Dustin Hoffman.

Il regista, ancora una volta, porta in scena una condizione subumana che lo attrae morbosamente da quando ha iniziato ad esprimersi per lo schermo: L’imbalsamatore (2002) Primo amore (2004) Gomorra (2008) Reality (2012) Il racconto dei racconti – Tale of Tales (2015).

L’operazione dell’autore è quella di liberare la narrazione dal genere sanguinario per ricondurla all’orrore quotidiano, assai più terrificante.

Cosa ci viene riferito del protagonista Marcello, il dogman? Che sbarca il lunario lavando i cani, anche feroci e di grossa taglia, alani, mastini, pitbull, cercando di ammansirli con un atteggiamento tra impaurito e amorevole, quasi fosse anche lui un cane, di piccola taglia. E’ un ometto gracile, senza età, dal volto emaciato, gli occhi eternamente sperduti. Ama i suoi animali, li coccola, li chiama amore tesoro, quando mangia un piatto di maccheroni al sugo e un muso si infila nel piatto, decide di dividere il contenuto, uno a me e uno a te, imboccandolo con la stessa forchetta. La sua attività lo porta anche ad acconciare i cani da esposizione, pettinandoli in fogge bizzarre, creative: barboncini bianchi trasformati in nuvole di pelo, in pupazzi di peluche. Anche grazie ai consigli della figlia Alida, di dieci anni, avuta da una relazione di cui non si sa nulla. La bambina è carina, vivace, gli è affezionata, e lui la ama perdutamente, l’abbraccia, la stringe a sé ogni volta che gli viene permesso di vederla. Per lei farebbe tutto. Riesce perfino a trovare i soldi per portarla in vacanza dove ci si può immergere in fondali marini meravigliosi, che sono la passione della piccola. Si tuffano insieme, fianco a fianco con le bombole, e quel mondo equoreo senza peso diventa il loro paradiso segreto, la vita che sognano, concepita di sola levità e bellezza.

Come Marcello riesca a procurarsi i soldi è presto detto; nel suo negozio di tolettatore ritaglia un piccolo traffico di droga, procura dosi di cocaina a chi la cerca. O a chi gliela strappa con la forza, come Simoncino (Edoardo Pesce) che a dispetto del diminutivo è un energumeno grosso come un macigno, pesante, muscoloso, una bestia dal cranio rasato che impone la sua prepotenza agli abitanti del miserabile quartiere. Il vero canaro era della Magliana, a Roma, ma Matteo Garrone ambienta la storia in uno dei luoghi più abbandonati d’Italia, a Castelvolturno sul Golfo di Gaeta, in provincia di Caserta. Parlare di ecomostri sarebbe un eufemismo per casermoni proliferati come neoplasie di cemento, vere metastasi urbanistiche che hanno completamente stravolto qualsiasi concetto abitativo. Sono le nuove periferie della nostra epoca, in cui le verdi campagne mortalmente ferite o le coste da sogno, sono state trasformate in un degrado di putredine. Scelta quanto mai opportuna per un autore così innamorato di ogni teratologia. E’ qui dunque, su questo scenario, che si consuma la tragedia di un cane di paglia che non sa neppure cosa sia una vita decorosa, ma come ogni creatura della terra, anche l’ultimo degli umili, conserva indistruttibile dentro di sé la scintilla della giustizia personale. Dal suo amico tracotante che lo sovrasta per potenza muscolare, per altezza, per arroganza, accetta qualsiasi umiliazione, forse sentendosi gratificato da quel sodalizio sia pure a senso unico. L’avanzo di galera è una  mina vagante, un pericolo per l’intero sottobosco verminoso. Nella sala giochi si incollerisce a scapito di una slot machine che gli spilla soldi senza mai restituirgliene: la abbranca pronto a distruggerla e il proprietario del tugurio è costretto a dargli trecento euro per farlo desistere. Un pizzo, un’estorsione. Gli altri ceffi patibolari non ne possono più ma nessuno ha il coraggio di eliminarlo con le proprie mani; riuniti tutti insieme nel bar sulla strada, congiurano di assoldare un killer. A opporsi è soltanto il cravattaro e ricettatore con il banco del Compro Oro che confina proprio con la rimessa del lavacani, sul quale l’energumeno ha già messo gli occhi.  Con le buone e con le cattive costringe Marcello a consentirgli il colpaccio; una notte pratica un buco nel tramezzo e svaligia la merce dello strozzino. La polizia arresta naturalmente Marcello come complice, e gli promette la libertà se denuncia il vero colpevole mandandolo in galera e liberando finalmente anche il quartiere da quell’incubo. Il povere cristo però, certamente per paura, ma forse anche per quel suo istinto canino di fedeltà, non se la sente e va per un anno dietro le sbarre. Quando esce si reca dritto a casa di Simoncino per reclamare i suoi soldi, la sua parte di bottino, che gli viene puntualmente negata. Per rabbia gli prende a sprangate la costosa e ultrapotente motocicletta; ma l’altro lo stana come un sorcio e lo tramortisce di botte. Riaccendendo però in lui il bisogno ancestrale di giustizia ben saldo nel petto di ogni essere umano. Con un trucco il canaro attrae l’odiato vessatore nel suo negozio, lo ingabbia a lucchetto, e alla fine consuma su di lui un’atroce vendetta; ma quasi costretto, per legittima difesa, senza mai rinunciare del tutto alla congenita mitezza. Distrugge il nemico naturale per un puro, elementare atto di conservazione. E in qualche misura anche di eroismo, che vorrebbe sfoggiare davanti a tutti gli altri riscattandosi per una volta dal loro disprezzo. Eppure non ci sarà nessuno a condividere con lui quell’impresa ben superiore alle sue forze. Rimane come sempre solo di fronte alla vita, disarmato, insignificante. Ha trasportato a spalla quel corpo esanime due volte più grosso del suo, lo butta a terra con l’affanno che non si arresta e l’occhio smarrito sulla desolazione che lo circonda. Lo sguardo di un cane che, senza l’approvazione di un padrone, non si rende conto delle proprie azioni, non sa esattamente cosa ha fatto.

Credo che il medesimo smarrimento sia il nostro, Garrone ce l’ha infilato nel cuore insieme alla faccia di Marcello Fonte che ha commosso la giuria di Cannes. Ci saranno stati magari interpreti più agguerriti di lui, con più talento, più scuola, più fotogenia, più capacità di recitazione, ma la palma non è andata a loro. Perché lo spettatore in un film sulla subumanità non cerca la furbizia del mestiere ma uno specchio in cui riflettersi, e in cui riflettere. E domandarsi: ma è questa la società che abbiamo voluto? Cosa ha partorito questa geenna quotidiana in cui il male ha vinto e stravinto, in cui non esiste contratto sociale, né la dignità dell’uomo, né la libertà che lo Stato gli garantisce. In cui non esiste cultura, non esiste evoluzione dell’individuo verso uno stadio umano appena superiore alla sopravvivenza animale. Dove è finita la parola di Dio?

L’immersione di Matteo Garrone in questo girone infernale, chiarisce meglio la sua poetica. Forse è lui l’eroe, il principe coraggioso di Lu cunto de li cunti, che dentro un approssimativo scafandro da palombaro scende negli abissi della palude ad affrontare il drago che affligge le contrade del suo castello. Lo ferisce a morte ma rimane fatalmente appestato dal suo veleno. Quanti mostri dovrà ancora raccontarci il regista prima di prevalere come San Giorgio e liberarci dal loro assedio?


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