Migranti. “L’Unione fa la forza ma purtroppo non lo capiamo”. Intervista con lo psichiatra Emanuele Caroppo

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Emanuele Caroppo, psichiatra di fama internazionale, a suo tempo collaboratore del ministro Kyenge ed esperto di questioni migratorie, ha da sempre la tutela della salute e del benessere psico-fisico dei migranti al centro dei propri studi e del proprio impegno professionale. Illuminare le periferie del disagio, del dolore e della sofferenza, a cominciare dai CIE, e far comprendere all’opinione pubblica quanto determinati temi siano ormai globali, dunque non risolvibili all’interno dei nostri angusti confini nazionali, sono le sue battaglie principali. In quest’intervista ci racconta la sua attività e i suoi progetti, presenti e futuri, offrendo degli spunti di riflessione da non sottovalutare.

A quali progetti sta lavorando in questo momento?
Stiamo lavorando sulla possibilità di immaginare una nuova modalità di impegno civico che riavvicini i cittadini al bene comune, alla cosa pubblica. L’idea è quella di far in modo che, indipendentemente dagli orientamenti politici e ideologici, si arrivi ad avere un laboratorio di persone che abbiano buone idee, competenze e, soprattutto, il desiderio di metterle a disposizione degli altri, condividendole e capendo che, così facendo, anziché dimezzarsi, si moltiplicano.

Lei, in questo momento, sta lavorando anche in quel di Velletri: di cosa si sta occupando di preciso?
A Velletri, a giugno, ci saranno le comunali e la nostra idea, la mia e del mio gruppo di lavoro, costituito insieme al candidato sindaco, dottor Augusto Di Lazzaro, è quella di usare la tecnica del brain storming e dei laboratori di pensiero, chiamando a raccolta tutti i cittadini che ne abbiano la voglia, la passione e l’interesse a discutere e a promuovere idee all’interno di un contesto in cui non ci si occupi di poltrone ma di proposte per una cittadina di medie dimensioni, bisognosa di un discorso pubblico improntato alla sostenibilità e allo slancio verso un cambiamento positivo e a portata di mano.

A proposito di periferie da illuminare, a quali progetti sta lavorando per quanto concerne l’immigrazione e l’integrazione?
Insieme a dei colleghi (Luigi Janiri, direttore della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma, Riccardo Colasanti del Rielo institute for integral development di New York nonché direttore dell’ospedale universitario di Loja in Ecuador, Annalisa Saccà della Saint John’s University sempre di New York, il professor Loganovsky, ucraino, e il professor Bhugra del Regno Unito) stiamo lanciando la costituzione di un Permanent forum on migration and healt, certi che bisogna partire dalle periferie del mondo se si vuole comprendere il fenomeno migratorio e gestirlo al meglio nei singoli stati.

A tal proposito, a luglio si terrà una conferenza a Ginevra
Sì, dal 3 al 6 luglio, a Ginevra, si svolgerà il congresso della Società europea di psichiatria sociale e, nell’ambito di questo evento, insieme a Janiri, Bhugra, Riccardo Colasanti e l’onorevole Kyenge, lanceremo l’idea del forum, presentando il programma e vari lavori, tra cui un’idea abbastanza innovativa che stiamo portando avanti con gli allievi della Scuola di Politiche, relativa all’impatto che la comunicazione può avere sui fenomeni migratori, tradotti in termini di qualità della salute e condizioni di benessere psico-fisico dei migranti. Inoltre, sempre con questi ragazzi, valuteremo quanto il suddetto concetto non possa essere scisso dagli aspetti giuridici.

Come valuta le politiche migratorie degli ultimi anni?
Con il governo Letta, parlo di quello perché vi ho collaborato in prima persona, per la prima volta si è cercato di regolare il flusso, tenendo conto degli aspetti umanitari ma anche della gestione più complessa del fenomeno migratorio che non può limitarsi a questo. Il sistema di accoglienza italiano andava messo a punto e lo si è fatto, creando un sistema in grado di accogliere una quota di migranti inferiore a quella che giunge nel nostro Paese. Peccato che si sia creato una sorta di pronto soccorso in grado di ospitare cento migranti quando ne arrivano millecinquecento! Un perfezionamento, in tal senso, si è avuto con il ministro Minniti, cercando di rendere i numeri compatibili con il sistema di accoglienza.

Che impatto ha avuto sull’opinione pubblica la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013?
Qui parlo da medico. Per me, perdere cinquecento vite umane o perderne una è comunque una tragedia, benché non voglia certo negare le dimensioni di quella catastrofe. Diciamo che, da quel giorno in poi, l’opinione pubblica un po’ ha aperto gli occhi. Purtroppo, si è trattato in gran parte di un impatto emotivo momentaneo, entrando poi a far parte del ricordo solo di persone attente e particolarmente sensibili a questi temi, non certo della collettività nel suo insieme.

Come dovrebbero cambiare i CIE per essere degli effettivi luoghi d’accoglienza anziché dei lager?
Il problema principale dei CIE è che non devono diventare il ricettacolo delle situazioni che non si riescono a risolvere per via dei cavilli legali o per l’impossibilità dei rimpatri. Dovrebbero diventare dei luoghi in cui l’idea di accoglienza, per quanto possa essere permanente, conservi comunque degli standard molto elevati. Io direi che andrebbero considerati alla stregua di zone diplomatiche e gestiti dai singoli stati come delle zone franche, al pari delle ambasciate per intenderci.

Quali sono i principali problemi che i migranti incontrano, a livello psichico, quando arrivano da noi?
Quando arrivano da noi, i migranti non hanno uno stato psico-patologico specifico, evidente ed in essere, anche perché questo sarebbe incompatibile con il viaggio migratorio che è a forte impatto stressogeno. I migranti sono complessivamente sani, eccetto l’ansia e la depressione reattiva che però non desta particolari preoccupazioni. Il dramma è che la detenzione nei CIE induce il capitale di salute ad abbassarsi, fino a quando, dopo circa un anno di presenza sul nostro territorio, questi poveri cristi sono esausti.

A cosa sono dovuti gli episodi di autolesionismo cui abbiamo talvolta assistito?
In quel caso, non c’entra l’aspetto psichiatrico ma la volontà di protestare, un po’ come i detenuti che si mettono in sciopero della fame. L’incertezza per il futuro, le condizioni complessive inaccettabili, il sovraffollamento, talvolta, di queste strutture, l’attesa di un decreto del giudice, l’attesa delle autorità competenti e via elencando sono le cause alla base di questi episodi estremi che segnalano un disagio da non sottovalutare.

Come va gestito il fenomeno al nostro interno, onde evitare che siano dislocati solo nelle periferie, già gravate da innumerevoli problemi e dunque più esposte al rischio che esploda poi una bomba sociale?
I migranti vanno dislocati in modo omogeneo, sia per quanto riguarda la distribuzione che per quanto concerne le modalità di intervento e accoglienza. Ci devono essere delle linee guida e degli standard operativi relativi all’accoglienza, il che consentirebbe di ridurre le condizioni di vulnerabilità e di stress migratorio. Certo che se il migrante vive alla stregua di un recluso in un quartiere già di per sé difficile, il rischio che esplodano situazioni come quelle che abbiamo visto qualche anno fa a Tor Sapienza, purtroppo, è estremamente elevato.

Come intervenire a livello internazionale per evitare nuovi casi come quelli che si sono registrati a Ventimiglia e, di recente, a Bardonecchia?
Ogni stato membro, a livello europeo, ha un proprio modo di affrontare i fenomeni migratori. C’è una notevole eterogeneità nel Vecchio Continente: basti pensare alla differenza fra chi ha lo Ius soli e chi ha lo Ius sanguinis. Italia e Francia, nello specifico, hanno delle differenze enormi al proprio interno, a livello di presenza e integrazione nel tessuto connettivo e sociale dei migranti. È ovvio che la disomogeneità, anche in termini di inclusione e integrazione sociale, ponga già gli stati membri su posizioni e problematiche diverse. Un elemento, tuttavia, ci accomuna tutti: i flussi migratori forzati sono ormai una realtà.

Anche quelli climatici?
Certamente, basti pensare ai siriani.

Qual è l’area geografica più interessata da questo fenomeno?
Senz’altro l’Africa subsahriana. E il fenomeno ci accomuna, ribadisco: nessuno può tirarsi indietro. Come accoglierli dovrebbe essere il tema di confronto: sia a livello internazionale che all’interno del nostro forum.

Quale sarà il ruolo geo-politico e geo-strategico dell’Italia nei prossimi dieci anni?
Per come si sono messe le cose, l’Italia continuerà ad essere l’unico corridoio di accesso verso l’Europa, garantendoci un ruolo di primo piano. Noi non potremo, tuttavia, continuare a ragionare in termini unicamente nazionali, in quanto siamo il primo lembo di Europa che si pone di fronte a chi fugge dalla miseria e dalla disperazione di intere aree del mondo letteralmente in fiamme.

O, come diceva Aldo Moro, un avamposto dell’Africa.
Anche, le due cose si tengono.

Perché è favorevole allo Ius soli? Quali benefici potrebbe arrecare al nostro Paese?
È una questione di buonsenso: i ragazzi che nascono qui sono palesemente italiani, con un capitale e un potenziale cognitivo enorme che non possiamo permetterci di sprecare. E poi ci sono gli aspetti economici e demografici e molti altri ancora: sarebbe un discorso lunghissimo. Piuttosto, interroghiamoci su come introdurlo: io rivedrei il Testo unico sull’immigrazione, sterilizzando il rischio di ricadute negative implicite, legate ahinoi al fenomeno del terrorismo internazionale che non va sottovalutato. È necessario tenere conto di molti aspetti ma che vada introdotto ormai è un dato di fatto.

Cosa si aspetta dal prossimo governo in materia di immigrazione?
Cambierei la domanda: quale governo mi aspetterei in materia? Un esecutivo lungimirante, con un respiro europeo e globale, che la smetta di ragionare in termini meramente nazionali, in quanto ormai non ce li possiamo più permettere. L’Unione fa la forza: nel caso specifico, non è solo un fortunato slogan ma una realtà sotto gli occhi di tutti.


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