Riforma dell’ordinamento penitenziario: una legge equilibrata, distorta da prassi e da mancate opportunità

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L’individualizzazione del trattamento è il focus intorno a cui ruota la specificità dell’ordinamento penitenziario ovvero dare atto a un’ osservazione scientifica della personalità che abbia come finalità l’elaborazione di un rinnovato progetto di vita per il condannato, eventualmente fruibile anche in misura alternativa, considerato l’intervento del ravvedimento operoso.
Un terreno fertile quello dell’esecuzione penale, svilito alla circostanza del regime detentivo, certamente abusato e non sempre utilizzato per lo scopo precipuo della difesa sociale.
L’esecuzione penale, tuttavia,  andrebbe rivalutata e arricchita di elementi attualmente deficitari posto che anche il regolamento di esecuzione, riformato circa 20 anni fa, appare desueto.

Le questioni, per essere chiare, devono essere analizzate nella loro interezza valutando possibilità inesplorate, esaminando organicamente i diversi aspetti del diritto penale, anche processuale, che oggi appaiono deludenti sotto il profilo della costituzionalità e nella considerazione del diritto come materia vivente, mutevole e adattabile alle nuove esigenze del contesto sociale.
Si possono rilevare molte incongruenze ma prima di affrontare le carenze dell’ordinamento penitenziario, mi piacerebbe sollevare delle questioni. Il sistema processuale penale applicato ai minori pare esser stato nel tempo quello più congruo, sia nella definizione delle responsabilità che nella idoneità delle misure attuate nei riguardi di tali soggetti. Applicare il rito penale minorile al sistema degli adulti risolverebbe la diade tra effetti penali di tipo garantista e conseguenze di penalità reazionaria.

La mediazione penale sarebbe lo strumento in grado di risolvere e snellire ogni procedimento, anche per reati di allarme sociale, riconoscendo il potere o la facoltà alla vittima dell’azione antigiuridica di scegliere un percorso diverso, uscendo dal processo, e seguendo nuove vie per trovare rimedio alla sofferenza generata dal male ricevuto. Riconoscere tale possibilità alla vittima apre un varco inesplorato nell’ambito della giurisdizione perché obbligherebbe alla perdita di potere di molteplici figure, oggi  riconosciute come indispensabili nell’ambito del rito processuale.
Per motivi di equilibrio, si dovrebbe aggiungere una riformulazione del verbo, della nozione di testimonianza, del racconto-confessione intendendola come arma “impropria” e non dirimente dell’assunto a prova. Essa è considerata sempre lecita e incontrovertibile, finché altra prova “de relata” non subentri in alternativa o in sostituzione alla prima.

Va sollevata una questione di metodo relativa ai tavoli generali dell’esecuzione penale visto che hanno rappresentato un incontro tra esperti, accademici e giuristi lasciando una falla aperta: residuali le voci degli operatori istituzionali, i contabili, i funzionari giuridico pedagogici, gli psicologi art.80 e gli agenti penitenziari, gli operatori della sanità, questi ultimi sempre più soli e inascoltati perché dal 2008 il loro datore di lavoro è divenuto la Regione. Mancano inoltre le soluzioni dettate dai detenuti, i rimedi alla non vivibilità delle carceri e alle criticità palesatesi nelle fasi processuali. Se essi si sono ravveduti, raggiungendo alti livelli di conoscenza del settore penale in quanto responsabili della loro detenzione, ascoltarli potrebbe rappresentare occasione per incontrare soluzioni innovative e ancora mai sperimentate. Se un ristretto ha trascorso 30 anni in carcere, forse, potrebbe indicare nodi di inefficienza o ostacoli nei meccanismi della penalità e gli operatori che seguono, osservano, controllano, custodiscono, rilevano, scrivono su di loro, potrebbero, di conseguenza, determinare le nuove esigenze dell’istituzione. Ritornando all’esecuzione penale, attuare una riforma senza riempire gli organici delle figure deputate all’osservazione intra muraria, dell’esecuzione penale esterna- minorata a servizio sociale “di comunità”- e in presenza delle lacune di progettualità, tali da non render eseguibile neppure istituti recenti come la messa alla prova, significa proporre un cambiamento in maniera irresponsabile, perché, lasciare il recluso dimittendo senza una soluzione abitativa, senza lavoro e, soprattutto, senza una rete sociale idonea, significa legittimare il pericolo della recidiva. La rieducazione, per essere propositiva e strumento pragmatico di educazione alla libertà, va rinforzato con elementi non solo di proposta, ma di certezza progettuale garantita dallo Stato.

*funzionario professionalità giuridico pedagogica Ministero Giustizia- DAP


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