Sessantotto! – I quaderni di Micromega (Parte I)

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Coincidenza vuole che, per distrazione, abbia iniziato la lettura dal secondo volume, il più avvincente, risucchiato subito da un toboga rapinoso, pagina dopo pagina. La ragione è molto semplice: i contributi erano in prevalenza di scrittori, per loro natura ben più capaci dei sociologi e dei politici nel cogliere la supposta ‘verità’ di un periodo storico alle nostre spalle, di rievocarne il clima, l’emozione,  il sentimento, e anche l’abito  un po’ polveroso sepolto nel fondo di un baule.

Stiamo parlando di Sessantotto! il numero speciale in edicola di MicroMega, che Paolo Flores D’Arcais dedica al Cinquantenario del fatidico anno con due corposi quaderni al costo di € 19,50.

A rinverdire la ricorrenza si adopera un nutrito gruppo di artisti e intellettuali, giovani in quei giorni, con una scorreria palpitante utile a chiarire il fenomeno antropologico prima che politico. Chi ha vissuto quegli anni, ci si ritroverà senza sforzo; le generazioni posteriori potranno scoprire come meglio non si potrebbe lo spirito di un’epoca rimasta leggendaria.

La mia fortuna è stata di essermi imbattuto all’inizio nella testimonianza di un autore americano di talento come Paul Auster, classe 1947, il quale affronta il tema con un incipit calamitante: “Il 1968 è stato probabilmente l’anno più importante, folle e confuso della mia vita”. E ripropone, in una carrellata cinematografica tra New York e Parigi, avvenimenti velati dalla nebbia ma incancellabili: i tumulti razziali di Newark che il sindaco, un italoamericano di nome Hugh Addonizio, perdendo la testa, aveva affrontato mobilitando la Guardia Nazionale e la polizia di Stato del New Jersey: «Li prenderemo tutti dal primo all’ultimo quei neri figli di puttana, gli daremo la caccia».  E “le celle si riempirono di neri insanguinati” annota  Auster. Non molto tempo dopo, aderendo a un programma di studio all’estero, il narratore si reca in Francia; legge Marx, Sartre, Camus, Marcuse, Adorno. Ma anche Samuel Beckett e Franz Kafka, e i poeti americani: “I libri che hanno contato di più per me sono stati quelli di letteratura, non i testi di filosofia o di teoria politica”. A un raduno di giovani comunisti incontra, emozionato, Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio che poi morì in un incidente aereo. “Percepivo soprattutto che a Parigi la sinistra, gli studenti di sinistra, osteggiavano violentemente la guerra in Vietnam.” Lo scrittore lascia la Francia prima degli “événements du Mai ’68”, ritorna a NY e partecipa alle manifestazioni in corso alla Columbia University. Il fiume dei ricordi accelera i battiti del cuore. A gennaio l’offensiva del Têt, dimostra “a me e a milioni di altri americani che gli Stati Uniti non avrebbero mai vinto la guerra”. Lyndon Johnson appare in televisione “per annunciare che in autunno non si sarebbe ricandidato alle elezioni”.  Pochi giorni dopo, a Memphis, nel Tennessee, viene assassinato Martin Luther King. Scoppiarono proteste violente in tutto il paese, scontri con la polizia, incendi: “Sembrava di essere sull’orlo di un’apocalisse”.  Il 23 aprile la Columbia University viene occupata per cinque giorni; seguono lo sgombero e gli arresti da parte dei reparti antisommossa di NY. Una minoranza dei rivoltosi, i  Weathermen, sceglieranno la lotta armata. L’anno accademico si conclude nel caos. “Poi arrivò l’estate con l’assassinio di Robert Kennedy candidato alla presidenza degli Stati Uniti. La convention dei democratici a Chicago si trasformò in un’insurrezione di massa.” In Europa esplode la Primavera di Praga. “Gli studenti simpatizzavano per Castro e per Che Guevara e guardavano alla Cina di Mao (…) Ma Castro è stato anche un dittatore autoritario. E sappiamo di Mao e degli orrori che ha inflitto al popolo cinese.” La riflessione sul bilancio è amara: “Nel 1968 fu eletto Nixon, un repubblicano, e nel 1980, con l’elezione di Ronald Reagan il grande movimento della destra degli Stati Uniti prese il potere e da allora l’ha sempre mantenuto. (…) Il movimento è sparito perché era basato su delle fantasie più che su qualcosa di reale”. Concludendo con una nota personale: “Non ero un attivista ma solo un compagno simpatizzante. Già allora sapevo che volevo fare lo scrittore, ci credevo, e sapevo che, se volevo fare quello che sentivo di saper fare e di dover fare in quanto scrittore, non avrei potuto fare politica attiva”.

A Auster segue, nella scansione dei pezzi, Massimo Cacciari con un’analisi politica di scarsa presa. Afferma che “la Democrazia Cristiana di quegli anni non è affatto un partito conservatore”, nomina alcuni leader politici di allora, De Michelis e Toni Negri, e ricorda con qualche fremito di aver partecipato “in prima fila” alla “contestazione che ci fu alla Mostra del cinema di Venezia, di cui l’anima della rivolta fu Luigi Nono”. Menziona ancora le occupazioni della Facoltà di Architettura a cui presero parte Rossana Rossanda, Luciana Castellina, e tutto il gruppo del Manifesto, sottolineando infine il proprio “confluire nel Partito Comunista”.

Decisamente più coinvolgente Sveva Casati Modignani, che fa risalire il suo ’68 al ’58, in rivolta con dieci anni di anticipo contro una famiglia di tipo vittoriano: “In casa mia «sesso» era una parola che non si pronunciava. Fino a diciotto anni non avevo mai visto un uomo nudo. Non avevo mai visto neppure una donna nuda: mia nonna e mia mamma, in mia presenza, portavano al massimo la camicia da notte”. Poi a diciotto anni Sveva si innamora e scopre l’eccitazione del rapporto intimo; ma quando vede il ragazzo spogliato e scorge “quelle escrescenze a forma di palla”, pensa a una malattia: “Mi sono immediatamente rivestita e sono scappata urlando giù per le scale”. Ma gli ormoni agiscono a sua insaputa, e presto incontra l’uomo che sarebbe diventato suo marito, benché già sposato: “mi sono data a lui tranquillamente e anche con gioia, con felicità, con un innamoramento folle, andando contro tutti i canoni dell’epoca”. Al punto che la famiglia, scoperta la tresca, inscena una tragedia. La madre bigotta la trascina in chiesa, la consegna al confessore, il quale in un colloquio riservato  “le prese la mano e se la strofinò sul suo grembo”.  La genitrice non le crede, non ascolta ragioni, anzi la condanna sibilando: “Tu sei tutta, ma tutta un vizio”. La reproba non verrà mai più perdonata. Trattata come una prostituta, decide di allontanarsi da casa, cerca lavoro nei giornali, comincia a scrivere per La Domenica del Corriere, ma Guglielmo Zucconi, che ne era il direttore, venendo a sapere che lei conviveva con un uomo sposato, quando si ripresenta in redazione la accoglie con gelo: “Le suggerisco di andare a casa a fare la maglia, oppure di sposarsi, adesso non ho più bisogno di lei”. Questa era la vita delle ragazze prima del Sessantotto: “Ho avuto la patente di puttana pur essendo andata a letto in tutta la mia vita con un uomo solo”.

Sul pezzo di Casati Modignani dovrebbero meditare tutte le donne, e non pochi uomini. Sveva leggeva Simone Weil e Simone de Beauvoir e “capivo che il mondo non poteva andare come voleva mia madre”. Però gli slogan delle femministe le sembravano ripugnanti: “L’utero è mio e lo gestisco io”. Era tuttavia convinta “che il mondo dovesse andare a sinistra. Sapevo che l’unione fa la forza, ma certamente io non avrei potuto unirmi agli operai per partecipare alle loro lotte, perché vivevo in un altro pianeta. Però sapevo che queste cose erano giuste”.

Tra gli autori stranieri troviamo la polacca Irena Grudzińska Gross che ben chiarisce quale fosse, sotto i vari cieli, lo spirito dell’epoca: “Poiché la ribellione era generazionale, le barriere – geografiche e politiche –  vennero scavalcate anche orizzontalmente. Il Sessantotto fu il movimento di coloro che provavano quell’indignazione, e c’erano diversi e seri motivi per una simile stato d’animo: guerre e occupazioni coloniali, disuguaglianze sociali e controlli autoritari sulla vita privata. (passim) In questo contesto è secondario che gli studenti in Polonia o in Cecoslovacchia richiedessero più democrazia parlamentare, mentre in Francia o in Germania fossero anarco-comunisti. (…) Gli studenti cechi, polacchi o slovacchi volevano non solo più libertà nella loro vita personale, ma anche più democrazia nella vita pubblica. All’Ovest gli studenti davano per scontato il governo democratico ed erano affascinati da diverse ideologie settarie comuniste, come il maoismo, il trozkismo, il guevarismo. (…) Noi volevamo fuggire al controllo puritano dei vecchi, volevamo leggere quello che ci pareva, portare i capelli lunghi e le calze colorate, ballare con la musica dei Beatles. Alcuni di noi credevano persino nell’amore libero!”. Interessante il giudizio drastico: “Un risultato molto importante del Sessantotto è stato la morte del comunismo”.

Piera Degli Esposti sottolinea a più riprese l’effervescenza culturale e soprattutto lo spirito di partecipazione: “Non si era mai soli”. Ricorda i teatrini off di Roma, le cantine, il Beat 72, Carmelo Bene, Giuliano Vasilicò,  Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann,  Memè Perlini e Antonello Aglioti, Leo De Berardinis, Antonio Calenda, Gigi Proietti. “Il Sessantotto – ribadisce l’attrice – è stato anche l’espressione del grande bisogno di stare insieme, che poi è diventato un’abitudine. I poeti cantavano insieme ai pittori”.  Esalta a sua volta, infallibilmente, la libertà sessuale, «l’amore libero», «la coppia aperta». “Ma il Sessantotto di coppie ne ha rovinate, poiché in realtà, esiste poi la gelosia che ha impedito a molti di vivere felicemente quegli «slogan»”. Le «sorelle» si univano tra loro, andavano a vivere insieme… “Io c’ero già andata, non è che ci fosse bisogno del Sessantotto per questo, anche se la mia vita era fatta di fidanzati più che di fidanzate…”

Per il seguito, appuntamento a domani.


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