Dj Fabo: sarà la consulta a occuparsi del caso. Le tante questioni (aperte) che colpevolmente si continuano ad eludere

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La “notizia”: la Corte d’Assise di Milano decideo di trasmettere gli atti alla Consulta affinché valuti la legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio nel processo al tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, imputato per la morte di Fabiano Antoniani, 40 anni, noto come dj Fabo, in una clinica svizzera col suicidio assistito il 27 febbraio 2017. I Pubblici Ministeri hanno chiesto l’assoluzione; in subordine l’eccezione di illegittimità costituzionale.

Il pensiero “cattivo”: decisione di pilatesco sapore; i giudici milanesi hanno colto di buon grado la “possibilità” offerta dagli stessi pubblici ministeri, e “scaricano” la patata alla Corte Costituzionale: che se la veda la Consulta, con calma, ad elezioni passate…

La storia: comunque la si prenda, provoca turbamento: è una dura lex atroce che “impone” un processo che vede imputato chi ha aiutato Dj Fabo a “liberarsi” da un corpo e da una esistenza che gli erano estranei, ostili. Straziante vedere la madre e la compagna di Fabiano Antoniani deporre in un’Aula di tribunale; dobbiamo forse al fatto che il pubblico ministero fosse una donna, se l’intera vicenda è stata affrontata con misericordia e umanità. Fabiano, giova ricordarlo, era in inchiodato in un letto in seguito di un incidente, perfettamente lucido, immobile, cieco. Prigioniero in un inferno di vita, senza speranza. E’ morto in Svizzera a fine febbraio: suicidio assistito. “Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada”. Così la madre di Fabiano racconta le ultime parole dette al figlio prima che “schiacciasse” con la bocca il pulsante.

Quello che si poteva raccontare (e non si è raccontato): un simile processo lo si sarebbe dovuto e potuto evitare. Una analoga vicenda avrebbe dovuto e potuto costituire precedente di cui tenere debito conto. Non viviamo, è vero, in un paese di tradizione anglosassone; tuttavia sentenze già emesse e passate in giudicato un peso dovrebbero, potrebbero averlo. Il precedente è costituito dalla storia di Angelo Tedde e di Oriella Cazzarello. Il Corriere Veneto del 14 ottobre 2015 la riassume così: “Assolto perché il fatto non sussiste. Così ha sentenziato, nel pomeriggio di mercoledì, il giudice Massimo Gerace nei confronti di Angelo Tedde, 60enne ligure di Chiavari, che era finito a processo per aver portato a morire l’amica Oriella Cazzanello, 85enne di Arzignano, per averla accompagnata – nel gennaio 2014 – in una clinica in Svizzera, in cui le era stata praticata l’eutanasia. Il pubblico ministero Gianni Pipeschi aveva chiesto tre anni e quattro mesi per l’ex portiere d’albergo accusato di aver istigato al suicidio la benestante vicentina, che gli ha lasciato una bella fetta dell’eredità, circa 800 mila euro. «Oriella era convinta, non ha voluto sentire ragione, non c’era modo di farla rinunciare all’eutanasia, ci ho provato fino all’ultimo» ha sempre sostenuto Angelo Tedde, che l’aveva già fatta desistere una volta. Oggi, al termine del processo con rito abbreviato, dopo circa due ore di camera di consiglio, il giudice ha pronunciato la sentenza di assoluzione piena dell’uomo”.

La classe politica (ir)rresponsabile: si sta parlando di questioni che riguardano la vita e la morte, la dignità e il rispetto di cui ognuno di noi ha diritto: questioni universali, e che volenti o nolenti riguardano tutti, nessuno escluso. Eppure la politica politicante ha estrema, rigorosa cura di evitarle, eluderle. Non se ne parla, non se ne discute, non ci si confronta, non ci si scontra. Sui giornali e nelle televisioni, sia pubbliche che private, nessun serio dibattito, nessuna seria informazione, nulla: un deserto. Ancora una volta, purtroppo, la magistratura arriva prima della politica. O meglio: sopperisce alle lacune, alle omissioni, ai ritardi, alle indifferenze di certa irresponsabile politica. Quella stessa irresponsabile politica che magari, poi, lamenta “invasioni di campo” da parte dei giudici.

Il caso di Marina Ripa di Meana: è da manuale, per quel che riguarda il vuoto di conoscenza, la carenza di sapere. Prima di morire ha affidato a Maria Antonietta  Farina Coscioni un testo che richiama tutti noi alle responsabilità che abbiamo, e di cui non ci si può liberare con una scrollata di spalle. Questa donna esuberante e piena di vita ci ha raccontato quello che ogni giorno accade a tantissime persone: “Dopo Natale le mie condizioni di salute sono precipitate. Il respiro, la parola, il mangiare, alzarmi: tutto, ormai, mi è difficile, mi procura dolore insopportabile: il tumore ormai si è impossessato del mio corpo. Ma non della mia mente, della mia coscienza…Ho chiamato Maria Antonietta Farina Coscioni, persona di cui mi fido e stimo per la sua storia personale, per comunicarle che il momento della fine è davvero giunto. Le ho chiesto di parlarle, lei è venuta. Le ho manifestato l`idea del suicidio assistito in Svizzera. Lei mi ha detto che potevo percorrere la via italiana delle cure palliatine con la sedazione profonda. Io che ho viaggiato con la mente e con il corpo per tutta la mia vita, non sapevo, non conoscevo questa via. Ora so che non devo andare in Svizzera. Vorrei dirlo a quanti pensano che per liberarsi per sempre dal male si sia costretti ad andare in Svizzera, come io credevo di dover fare”. Il passaggio chiave del testo: è questo: “Non sapevo, non conoscevo questa viache si può percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda”. In breve: anche a casa propria, o in un ospedale, con un tumore, una persona deve sapere che può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze: “Fallo sapere, fatelo sapere”, l’estremo appello.

Un richiamo a tutti noi perché si faccia sapere, conoscere. Quanti sono i sofferenti giunti allo stremo che ignorano che è consentita, possibile, un’alternativa “dolce” al suicidio violento o al viaggio senza ritorno in Svizzera? Il ministero della Salute in altro appare impegnato, scarse e scarne le informazioni, nessuna campagna per garantire adeguata conoscenza; e i mezzi di comunicazione troppo spesso sono assenti, rinunciano a svolgere quel ruolo di informazione che dovrebbe essere elemento costitutivo della loro esistenza.

Sempre a proposito di conoscenza
: due anni fa il primario del cattolicissimo ospedale romano “Gemelli”, professor Mauro Sabatelli, ha spiegato perché non ci sarebbe nemmeno bisogno di una nuova legge per rispettare la volontà dei malati che chiedono il distacco del respiratore sotto sedazione. Il problema, piuttosto, è che in molte strutture sanitarie si impongono trattamenti sanitari contro le scelte del malato, contro la Costituzione, contro le buone pratiche mediche e persino contro la dottrina cattolica. Il rifiuto delle cure, spiega Sabatelli, non è eutanasia ma una questione di buona prassi medica. Già oggi la legge, la Costituzione e il codice deontologico lo consentono. Anche il Magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un “diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”.

I malati sanno che al Gemelli potranno rinunciare al respiratore, quando per loro dovesse diventare intollerabile. “Solo con questa sicurezza il 30 per cento accetta oggi la tracheotomia”. Ed è sempre il malato a valutare e scegliere “se la ventilazione meccanica è trattamento proporzionato alla propria condizione e quindi non lesivo della propria dignità di vita. Chi accetta ha diritto ad essere assistito a casa, aiutato dalle istituzioni. Chi rifiuta ha diritto a morire con dignità”. Sabatelli ben conosce il calvario di chi vive con la SLA e altre terribili malattie che non concedono scampo; per questo trova scandaloso che in molti Pronto Soccorso i medici si arroghino il diritto di intubare malati che hanno detto di no, o minaccino di mandarli a casa se non accettano la ventilazione forzata: “Una follia. Il compito del medico è seguire le scelte del paziente, alleviare le sofferenze. Troppi non lo fanno per paura, ignoranza della Costituzione e dei documenti della Chiesa”. Ai medici, dice Sabatelli “spetta il compito di informare il malato in modo approfondito. Al “Gemelli” studiamo un piano di cura coi malati, ascoltiamo i voleri di chi vive con un tubo in gola, un sondino per nutrirsi. Li seguiamo nel cammino, sino all’ultimo. Perché io non li lascio andare, non li lascio morire. Li accompagno sino alla fine. Mi assicuro che venga seguite la loro volontà e non soffrano. Li addormentiamo, e togliamo il respiratore. L’abbiamo fatto a pazienti che, stanchi di vivere immobili, attaccati alle macchine, hanno detto basta. Sono stati sedati profondamente e solo a quel punto spenta la macchina che soffiava aria nei polmoni. Sono morti senza dolore, dormendo”.

In tutto questo, la chiesa cattolica? “In un documento del 1980 si può leggere: “È lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi”. Significa che il medico deve assistere chi soffre, eliminare il dolore; ma anche riconoscere il diritto a rifiutare la cura e assistere il sintomo, il senso di soffocamento, con la sedazione. C’era arrivato già negli anni ’50 papa Pio XII “Compito del medico è lenire le sofferenze e se anche il farmaco dovesse accelerare la fine, il nostro obiettivo è togliere la sofferenza”. Quindi la sedazione profonda è eticamente accettabile. Le persone che rinunciano alle cure non decidono di morire, decidono come vivere. La vita è un valore inestimabile, ma bisogna farsene carico, aiutare le famiglie.

Si potrebbe continuare ancora a lungo, che tanti sono gli aspetti che si possono e si dovrebbero trattare, a partire dalla decisione dei giudici di Milano di rimettere alla Corte Costituzionale il compito di fare chiarezza sulla questione.


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