Cinecittà, la tattica dei signori degli “Studios”

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E due. Secondo annuncio da parte del ministro Franceschini e del presidente dell’Istituto Luce Roberto Cicutto sul ritorno nella sfera pubblica degli Studios di Cinecittà. La scorsa settimana ulteriore conferenza stampa, dopo quella tenutasi prima dell’estate. E’ vero che nell’ultima circostanza sono state aggiunte ulteriori notizie: dalle mostre su Federico Fellini e Monica Vitti, al lancio del Museo italiano del cinema e dell’audiovisivo. Tuttavia, il completo ritorno nella casa dello stato della società frettolosamente privatizzata vent’anni fa richiedeva qualche spiegazione in più. Vale a dire, chi e perché ha fallito. La cordata degli imprenditori, da Abete a De Laurentis, non ce l’ha fatta, ma l’insuccesso non è stato innocente o figlio del destino. Si è perseguita una linea assurda e destinata (ma chi lo disse o scrisse in tempi non sospetti fu tacitato) ad un prevedibile flop. Non solo. Deboli con i competitori internazionali, i signori degli Studios esibirono la loro volontà di potenza con lavoratrici e lavoratori: cassa integrazione, ricorso alla mobilità, cessione di rami di azienda.

Fu necessaria una lunga occupazione simbolica nel 2012 per bloccare la destrutturazione e per debellare il morbo antico della speculazione edilizia sui e dei terreni. Tentazioni vecchie e presenti già nel piano di ristrutturazione che accompagnò la cessione ai privati. Scrisse lucidamente su “MondOperaio” (nn3/4 del 1996) l’ex direttore dell’Ente gestione cinema e di Cinecittà International Vittorio Giacci: “…si ha quasi la sensazione che non si tratti di un piano solo ma di due…un primo, sfuggente e vacuamente avvenirista quel tanto che basta per renderlo inattuabile, ed un secondo, più oscuro e sotterraneo, ove aleggiano, dietro macchinose ipotesi di ingegneria societaria, trasferimenti di proprietà, vendite e cessioni, alienazioni e cementificazioni…” Simile “doppiezza” è alla base della miserrima sorte del capitalismo all’italiana. Ora, a sentire il titolare del Mibact, si volta pagina, con un investimento di 60 milioni di euro (pochini, in verità) per il triennio 2017-1019. Ed è stato evocato il possibile raccordo con la Rai, altra chimera che risale a quasi quarant’anni fa. Vedremo. Certamente, la ri-costruzione di un forte gruppo pubblico cross-mediale è necessaria, ma nel contesto di una strategia. Non come toppa messa per rimuovere le verità scomode. A parte, insomma, l’incoronazione di Roberto Cicutto, nuovo ministro-ombra del cinema essendo all’Istituto Luce un ruolo assai vasto, quali sono le politiche culturali sottese al cambio societario? E’ una tattica di mantenimento transitorio in attesa di cordate privati solide, magari internazionali? O è, come piacerebbe pensare, il primo gradino di un ridisegno delle linee pubbliche, dal cinema all’audiovisivo?

Serve un chiarimento, proprio nei giorni in cui la campagna elettorale disegna programmi e obiettivi per il futuro. Se davvero si vuole girare (finalmente) la ruota verso il bene comune, allora è da mettere in cantiere una riforma di sistema che superi il logoro Testo unico del 2005, la leggina sulla Rai del 2015 e riveda la fresca normativa di settore. Altrimenti è un fuoco fatuo.

E’ legittimo attendersi un atto impegnativo, come la convocazione di Stati generali, in cui le categorie del lavoro abbiano l’opportunità di essere protagoniste, e non comparse.

PS: E che c’entra l’ipotesi avanzata di una Casa del videogame? Ricominciamo?


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