Catalogna. Il voto di domenica ha un chiaro sconfitto, Mariano Rajoy e il suo governo

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Il voto di domenica ha un chiaro sconfitto, Mariano Rajoy e il suo governo. Madrid aveva garantito che non avrebbe consentito che il referendum illegale si tenesse e invece il voto, massiccio e pacifico, c’è stato. Inoltre, le immagini delle brutalità poliziesche hanno fatto il giro del mondo. Il discredito è stato tale da far passare in secondo piano l’illegalità della consultazione, facendo guadagnare all’esecutivo e alla sua azione la definizione di «vergogna d’Europa», come ha titolato il sito della rete televisiva statunitense Cnn, citando le parole del presidente della Generalitat, Carles Puidgemont.

Il non-referendum è stato certamente un atto politico dirompente. La Generalitat canta vittoria. Ed è vero, il braccio di ferro è stato vincitori i promotori della consultazione; ma non risponde al vero affermare, come ha fatto Puigdemont, che la valanga di Sì, il 90,08 per cento dei poco più di due milioni di voti scrutinati, sia stato il «chiaro mandato popolare» per proseguire con la secessione unilaterale. Non solo perché la consultazione mancava di valore legale, e in nessun modo rispondeva ai criteri di garanzia e trasparenza propri delle consultazioni popolari democratiche, ma perché sarebbe falso affermare che tutti coloro che si sono recati alle urne abbiano scelto l’indipendenza. C’è chi ha votato Sì per affermare la democrazia, chi perché vuole una Catalogna indipendente e sovrana, chi per reazione alla chiusura politica e alla repressione del gobierno. Madrid ha aiutato molto i referendari, creando tensione e allarme democratico e ricompattando sul voto posizioni molto diverse tra loro.

Se la brutalità poliziesca è stata evidente, in molti casi il sangue freddo con cui gli agenti non hanno risposto alle provocazioni è da apprezzare. Dobbiamo infatti salutare con sollievo il fatto che non sia successo nulla di irreparabile. Non era scontato. Anzi, a chi ha partecipato al voto con volontà pacifica, come alla responsabilità della maggior parte singoli “comandanti in campo”, più che al ministero degli Interni che li comanda, va riconosciuto di essere riusciti a gestire la difficile giornata senza che le cose degenerassero.

Le responsabilità degli esecutivi catalano e spagnolo sono gravissime. Malgrado le apparenze le democrazie catalana e spagnola, così come si esprimono nelle azioni degli esecutivi, si assomigliano molto. Il govern per approvare la legge di Transitorietà che istituiva il referendum ha violato le sue norme e umiliato il diritto delle minoranze parlamentari, come il gobierno ha fatto in numerose occasioni, forte di maggioranze blindate. L’irresponsabilità degli esecutivi ha sottoposto la cittadinanza a intollerabili rischi, ha mandato le forze dell’ordine allo sbaraglio, ha, inalberando la bandiera della democrazia, umiliato coi suoi atti il senso più profondo di essa.

È vero, l’iniziativa catalana non rispettava le leggi, neanche quelle catalane; la deriva scissionista è di per sé antidemocratica; la lettura del concetto di autodeterminazione dei popoli falsa, pericolosa e strumentale; l’obiettivo della secessione irrealizzabile e foriero di miseria e tragedie. Ma è responsabilità di Madrid aver ignorato e anzi esacerbato la situazione negando qualsiasi tipo di confronto politico. Come di aver mandato allo sbaraglio, come truppe d’occupazione in un paese straniero, i propri agenti di pubblica sicurezza. Anche molti commentatori italiani dicono che Madrid non poteva fare diversamente. Ma, semplicemente, non è vero.

Dopo aver ottenuto la deliberazione del Tribunale costituzionale, che aveva invalidato la “Legge di Transitorietà” che istituiva il referendum votata dal Parlament, una volta riaffermata la potestà dello stato nella definizione del concetto di legalità e rispondenza ai criteri democratici delle consultazioni, e aver ribadito l’unità della nazione, avrebbe potuto far tenere quella che non era una consultazione popolare ma un’iniziativa politica di parte. Oltre a compiere il proprio ruolo di garante della sicurezza della cittadinanza, avrebbe levato valore politico all’iniziativa, lasciando spazio alle contraddizioni all’interno del govern, consentendo alle forze catalane ostili al referendum di esprimere la propria posizione. Ha agito diversamente non per un errore di calcolo ma perché esprime questa cultura democratica, basata sull’autoritarismo e sul soffocamento delle dinamiche partecipative della società. Cosa succederà adesso, lo scontro tra nazionalismi verrà portato avanti dai protagonisti o sarà possibile percorrere un cammino diverso, riportare la politica al dialogo e alla responsabilità? È difficile dirlo.

In queste ore la tensione resta alta. Il dispiegamento di forze resta sostanzialmente inalterato e iniziano i primi alterchi tra esponenti delle opposte fazioni. Se il govern scegliesse la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, e se il gobierno chiedesse, in risposta a questo o come iniziativa preventiva, l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione – che esautora le istituzioni autonomiche dandole allo stato – le cose si metterebbero malissimo.

La posizione di Puigdemont, per quanto vittorioso, non è semplice. I soci di governo di Erc e Cup spingono per la dichiarazione unilaterale ma grande imprenditoria e finanza catalane frenano. In una conferenza stampa alla Generalitat si è rivolto al mondo. «Chiedo una mediazione con Madrid, che deve essere internazionale per essere efficace», ha detto dopo aver chiesto il ritiro degli agenti ancora presenti nella regione. Ha poi aggiunto: «Il governo non ha deciso di dichiarare l’indipendenza ma ha ritenuto che sia giunto il momento di richiedere una mediazione, che deve essere internazionale per essere efficace». Per poi rivolgersi a Bruxelles: «Si tratta di una questione europea, non interna. L’Ue non può girarsi dall’altra parte».

Ma il portavoce della Commissione europea, Margaritis Schinas, ha ribadito che «È una questione interna per la Spagna [che] deve essere affrontata in linea con l’ordinamento costituzionale. La violenza non può mai essere uno strumento in politica» ma Juncker e l’esecutivo comunitario hanno «fiducia nella leadership di Mariano Rajoy per gestire questa situazione». Si è fatto invece sentire l’Onu, non per proporsi come mediatore ma per chiedere che il governo spagnolo apra «un’inchiesta ampia, indipendente e imparziale su tutti gli atti di violenza».

Ma chi è Carles Puigdemont? Personaggio da noi sconosciuto, la sua figura ci spiega molto, dell’escalation indipendentista come processo governativo diretto dall’alto – e dello stato dell’informazione spagnola.

Puigdemont è un rappresentante della terza generazione di politici della Spagna delle autonomie. Quelle figure, terrore dei giornalisti, che le intervisti per mezz’ora e poi, quando cerchi negli appunti una notizia, ti accorgi che non hai nulla. Ne ha, del resto, tutti gli strumenti perché è anche un giornalista, anzi un puro prodotto del giornalismo filo governativo catalano, dipendente dai finanziamenti del govern.

Di Convergència Democràtica de Catalunya (CdC) per tradizione famigliare, Puigdemont decide di darsi alla politica nel 1980 quando, diciottenne, assiste a un comizio di Jordi Pujol accompagnato dallo zio Josep, primo sindaco democratico del paese natale, Amer. Si caratterizza da subito come indipendentista, quando questa era considerata una parolaccia nel catalanismo moderato, e entra nella Joventut Nacionalista de Catalunya, abbandona gli studi di filologia si dedica al giornalismo.

Nel 1981 inizia a lavorare a El Punt – oggi El Punt Avui, dall’unione di due testate per la necessità, nel pieno della crisi e dei tagli sociali, di far quadrare il bilancio della Generalitat con le necessità della propaganda, applicando le dovute sinergie. Nel 1999 avviene il salto. La Generalitat lo incarica di coordinare la creazione della Agència Catalana de Notícies (ACN) che dirigerà fino al 2002 – perché la democratica Catalogna dispone di agenzie di stampa di regime, non bastasse la stampa assistita.

Dopo una parentesi come direttore della Casa della Cultura di Gerona, nel 2004 fonda Catalonia Today, quotidiano in lingua inglese, catalanista e fortemente sovvenzionato dalla Generalitat. Amico personale dell’ex presidente del Barcellona, Joan Laporta, con cui passa spesso le vacanze insieme, è ormai pronto per entrare direttamente nella prima linea della politica.

Nel 2006 viene eletto nel Parlamento catalano e l’anno dopo si presenta come capolista alle municipali di Gerona, bastione socialista fin dalle prime elezioni democratiche, e non viene eletto. Il bastione però crolla quattro anni dopo e Puigdemont, al secondo tentativo, diventa sindaco. Nel 2015 sale alla presidenza della Asociación de Municipios Independentistas e viene rieletto al Parlament. L’anno dopo, a sorpresa, viene scelto come successore da Artur Mas, costretto a abbandonare la presidenza catalana per l’interdizione conseguente alla condanna per l’organizzazione del referendum indipendentista del 2014 – perché quello di ieri non è il primo promosso dal govern, ma tre anni fa Rajoy non decise di partecipare allo spettacolo mettendo in stato d’assedio la Catalogna.

Puigdemont è in realtà una figura priva di carisma, che fugge il contraddittorio e le interviste non protette. Ma a volte non può esimersi. Come il 25 settembre quando, per parlare agli elettori di sinistra scettici verso il referendum, si è sottoposto alle domande del giornalista Jordi Evole de La Sexta che lo ha subito colto in fallo in merito all’indipendenza curda, del quale si era dichiarato sostenitore omettendo – dimenticando – di aver votato contro una risoluzione di appoggio presentata al Parlament.

Il resto del panorama dell’informazione non è migliore. Le relazioni tra governi locali e testate giornalistiche sono incestuose in quasi tutto il paese. E nelle grandi testate la situazione non è diversa. L’informazione spagnola ha abbandonato il suo ruolo riducendosi a megafono dei poteri politici, economici o amministrativi di riferimento. Giornalisti e commentatori si sono abbandonati all’evocazione della guerra della civile, hanno richiesto interventi militari, arresti, sospensione dei diritti. El País, El Mundo, testate di riferimento dei nostri commentatori politici, hanno entusiasticamente assecondato l’irresponsabilità dell’esecutivo di Madrid, raggiungendo con la perizia del mestiere una violenza verbale un tempo patrimonio dei fogli più estremisti e meno autorevoli. Anche negli interventi di opinione, un tempo attenti alla pluralità, voci dubbiose sulla deriva dello scontro non hanno più trovato spazio per esprimersi. E se anche le autonomie hanno le loro radiotelevisioni pubbliche, la cui autonomia è ancora minore di quella delle testate dipendenti dalle sovvenzioni delle amministrazioni, nella radiotelevisione pubblica le cose non vanno meglio. Il Consejo editorial di Rtve, il comitato di redazione, ha chiesto le immediate dimissioni di tutte le direzioni giornalistiche per non aver garantito una «informazione obiettiva, veritiera e plurale» e per non aver predisposto un’adeguata copertura informativa. Mentre le televisioni catalane rimandavano le immagini delle violenze e seguivano gli avvenimenti minuto per minuto, televisioni e radio nazionali parlavano d’altro. Anche gli spagnoli all’estero non sapevano cosa stava accadendo perché 24 Horas, la RaiNews spagnola, si occupava di altro.

La Spagna è davanti al rischio di un ulteriore deterioramento del suo sistema democratico e ha bisogno di costruire il più ampio consenso possibile per trovare un’uscita in avanti. Alla crisi catalana, come alla crisi complessiva che sta patendo. Per ora, politica, istituzioni e informazione, sembrano incapaci di affrontare il compito.


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