Quando il razzismo mistifica l’inferno dei disperati

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Se un popolo si sente minacciato e si esprime a tinte forti, abdicando alla Ragione, vuole dire che il suo Declino è iniziato. Se il nostro paese annega ogni giorno di più nella crisi strutturale economica, sociale e culturale, non ci dobbiamo meravigliare se a prendere il sopravvento siano gli istinti più bellicosi. Meravigliarci no, ma indignarci certamente sì! Se poi la tanto invocata “libertà di stampa” (prezioso puntello di ogni democrazia) diventa invece il megafono per una “libertà di linciaggio”, una caccia alle streghe possibilmente di colore scuro, allora vuol dire che il senso del pudore e ciò che resta dell’Etica evaporano al bordo della voragine in cui si rischia di precipitare.

Da troppo tempo, è in atto un sottile stillicidio di disinformazione e avvelenamento della pubblica opinione, agitando fantasmi, paure, ataviche avversioni verso qualsiasi tipo di “diversità”, considerata alla stregua di oltraggiose contaminazioni nei confronti di una presunta “purezza” originaria da preservare. Che le pericolose “invasioni” siano rappresentate da insetti o da esseri umani, ormai non fa più differenza!

Miseria e malattie antiche bussano insistentemente alle nostre porte e “cavalieri senza macchia e senza paura” sfoderano le spade e le lingue avvelenate, per erigere fortini in difesa! Si invocano marce su Roma, caccia spietata all’untore di turno, dimenticando, omettendo, mistificando ad arte i problemi reali che affliggono il Paese (ormai avviato verso un declino di pochezza morale e materiale). Non è più il caso di ridimensionare questo imbarbarimento: è oggettivamente difficile contabilizzare la dimensione dell’idiozia generalizzata, dei focolai accesi e sparsi, pronti ad alimentare mille incendi.

Vorrei condividere un episodio personale per rendere il profondo disagio che avverto di fronte all’ondata di razzismo, ormai incontenibile. Sono trascorsi alcuni mesi, ma il ricordo è indelebile. In questi giorni riaffiora. Mi trovavo in una stazione della Metro “A” di Roma, in ritardo per un appuntamento. Non avevo trovato i biglietti nei bar circostanti e nell’unica tabaccheria di zona e avevo una banconota da 20 euro. Le macchinette erano difettose. Il personale di vigilanza insensibile alla mia richiesta di aiuto. La gente cui chiedevo il favore di cambiare la banconota mi sfuggiva. L’unico che si è fermato in mio soccorso è stato un uomo “color cioccolato”, modestamente vestito, con un pesante borsone sulle spalle; non aveva da cambiare, ma senza esitazione mi ha regalato uno dei suoi biglietti, sorridendomi. Al mio dilungarmi in ringraziamenti, ha tagliato corto: anche lui andava di fretta. L’ho visto sparire tra la folla, un uomo fra tanti, ma più generoso degli altri.

Ho pensato a lui in questi giorni, scorrendo anche la mia pagina Facebook. Quanti “amici benpensanti” e ben introdotti nel mondo reale, che “conta”, si dannano l’anima per la presunta “ondata di emigranti” in procinto di invadere e contaminare la nostra civiltà. O meglio ciò che ne resta! Forse anche Lui era arrivato dal mare, con i suoi fagotti stracciati di speranze, illusioni, in cerca di pane e opportunità, lontano dalla sua terra arida, desertica, divorata dal sole e devastata dalle guerre, ormai prodiga solo di lacrime e sangue.

Guardo la cartina dell’Africa e penso al “Quadrilatero della morte”, che si estende tra Sudan, Etiopia, Eritrea, Nigeria, Ciad e Libia, ormai disseminato da cadaveri senza nomi e senza numeri, attraversato da donne, bambini e uomini disperati, alla mercé di passaggi di “sfortuna”. Tentano di arrivare sulle coste con la fievole illusione di trovare, seppure a caro prezzo, un’imbarcazione che li conduca a sponde più sicure di quelle che si lasciano alle spalle. I listini dei prezzi oscillano in base ai loro punti partenza e dei rischi nel percorso. Gli eserciti dei paesi africani dittatoriali, anche finanziati “per scopi umanitari” dall’Unione Europea, hanno sigillato molti confini e schierato spietate bande armate, impegnate nel loro smistamento, che spesso si trasformano in decimazione. Le milizie nomadi libiche dirigono il traffico, così come quelle somale. Gli emigranti vengono svenduti come fossero prodotti da supermercato discount: esseri umani ridotti a merce deperibile. Uno parte gratis, se dietro se ne porta 3 o 4 paganti.

Abusi, torture, sfruttamenti sono all’ordine del giorno ed è grazie alle denunce di “Medici senza frontiere”, se il mondo si è fermato un attimo a riflettere. Sul numero imprecisato degli annegati nel Mediterraneo ormai si è steso un velo pietoso. Sui campi di concentramento in Libia, grazie a coraggiosi reportage, si sono accesi i fari, scoprendo una realtà che contrasta con l’ufficialità dei governi. Ora il traffico dei barconi e dei gommoni della morte sembra sospeso. Più redditizio sembra trattenere in detenzione nei campi quanti vorrebbero partire. I mercanti di schiavi hanno scoperto un altro orrendo business, arricchendosi come col traffico di armi e droga.

I veri e inconfessabili accordi tra i rappresentanti dei governi europei ed africani restano in ombra e sfuggono alla pubblica opinione. Alla gestione dei flussi lungo la “Rotta del Mediterraneo centrale” i funzionari pubblici in Libia ormai affiancano le bande tribali locali. In un Rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato nel dicembre del 2016, veniva già denunciato come la corruzione è alle stelle, le prigioni e i campi di lavoro e di detenzione forzata, pubblici e privati, versano in condizioni disumane. Stando sempre alle stime dell’ONU si conterebbero all’incirca 30 centri di questo tipo, sotto la tutela della Direzione di “Lotta contro la migrazione illegale” (DCMI), dipendente direttamente dal ministero dell’Interno. A queste “prigioni speciali” si affiancano altrettante prigioni ufficiose, gestite dalle milizie armate. In tutte queste strutture della “disperazione” sarebbero stipati sui 7 mila rifugiati ciascuna. Più o meno 500 mila disperati: carne umana dai profitti garantiti e senza alcun rischio.

Un inferno raccontato dai pochi cronisti che sono potuti entrare clandestinamente in alcune prigioni di Gharian, Sorman, Zaouia vicino Tripoli. In maggioranza sono maschi, ma ci sono anche molte donne che subiscono regolarmente violenze sessuali, che partoriscono in mezzo alla sporcizia. Mancano cibo e medicine, i neonati sono denutriti e coperti alla meno peggio di cenci. Tutti partono allo sbaraglio, non prevedendo l’atroce inganno ordito dai carcerieri che li attendono. Il Destino stavolta non ha nessuna colpa. Credono che una volta arrivati in Libia, dopo una settimana, più o meno, dovrebbero approdare sulle spiagge italiane, per poi disperdersi nel resto d’Europa. All’orizzonte vedono già un lavoro e la dignità finora calpestata. Ma a Sebha, la più grande oasi della regione del Fezzan, nel pieno Sahara, comprendono che la loro odissea è appena agli inizi. Regolarmente derubati di tutto quel poco che hanno, agli uomini addirittura vengono tagliati gli orli dei pantaloni, per scoprire se vi sono nascosti piccoli “tesori”; spesso ai loro familiari rimasti a casa vengono richiesti i riscatti in cambio della vita.

C’è poi anche un’altra realtà: quella di centinaia di migliaia di emigranti dai paesi confinanti bloccati da tempo in Libia, dove erano andati per lavorare regolarmente. In gran parte sono nigeriani e provenienti dall’Africa Subsahariana, occupati nei lavori più umili, inizialmente retribuiti, ma poi trattenuti all’infinito, come ostaggi, in attesa di un salario e quindi costretti a lavorare gratuitamente. L’economia della Libia, dopo la caduta di Gheddafi, è allo sbando, come le strutture statali e finanziarie del paese. La valuta si cambia e si contrabbanda al mercato nero, sotto il controllo delle milizie armate. E intanto le grandi corporation energetiche macinano profitti.

Questo è il paese col quale l’Italia ha stretto un patto “umanitario” per bloccare sulle spiagge tripolitane il “pericolo dell’invasione” dei disperati della terra.


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