Vanessa Redgrave, neoregista a 80 anni, porta i migranti a Cannes

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È una pasionaria di 80 anni a dare l’impronta al Festival di Cannes che inaugura con una blindatura da bunker anti-attentati i suoi 70 anni di vita. Vanessa Redgrave, attrice sublime e donna militante da sempre, debutta alla regia con “Sea sorrow”, alla lettera “Il dolore del mare”, un generoso appello alla solidarietà verso i rifugiati che documenta i suoi viaggi tra i campi profughi, nella Jungle di Calais, in Grecia, nel Libano, e affida letture dai classici agli amici Emma Thompson e Ralph Fiennes. Da un iperclassico Shakespeare viene il titolo del documentario: sono parole del Prospero de “La tempesta”.

Sea sorrow” dà un senso e un’anima a un’apertura di Cannes che deludente è dir poco. Supponiamo che “Les fantomes d’Ismael” di Arnaud Desplechin, il film del “via”, sia stato scelto come tributo alla grandeur francese e al fatto che Marion Cotillard, Charlotte Gainsbourg, Louis Garrel, Mathieu Amalric sulle prime marches del Festival fanno un figurone.

La nostra Alba Rohrwacher, che li affianca, approda così alla massima gloria della Croisette, e fa solo piacere. Ma il film, soffocato dal gioco autoreferenziale del cinema-sul-cinema che fa tanto “autore” e delizia “Les Cahiers du Cinéma”, tra i critici non ha raccolto un applauso che sia uno.

Vanessa Redgrave (prodotta dal figlio suo e di Franco Nero) invece si batte, Dio la rimeriti, perché gli stitici governi d’Europa facciano fronte alle responsabilità e restino fedeli ai loro principi condivisi. Che sono poi (precisamente elencati da Redgrave) la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1950), lo Statuto dei Rifugiati (1951) e la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia (1989).
Il fulcro sono i minori senza famiglia. Il film si muove tra testimonianze dirette e filmati di respingimenti, documenta le mobilitazioni inglesi di piazza per accogliere i bambini relegati nell’inferno di Calais, fa parlare Lord Alfred Dubs, che in Uk si è battuto per questa causa.

Ma soprattutto “Sea sorrow” ci ricorda che in questa Europa non moltissimi anni fa tutti siamo stati dei rifugiati, in fuga dai bombardamenti, dal nazismo, dall’Ungheria invasa, dai pogrom russi. È la “gigantesca disumanità” di cui parlava Thomas Moore, traumi che hanno segnato tante generazioni. Ecco, questo è il “cinema della necessità” che è forse l’unico filo rosso di un “Festival monstre” zeppo, in ogni sezione, di titoli intriganti, almeno sulla carta.

Solo l’anno scorso Gianfranco Rosi fu il primo e il solo a imporre a Berlino i migranti di “Fuocoammare“. Quest’anno qui a Cannes è il tema di “Jupiter’s Moon“, film ungherese in concorso, e l’Oscar Alejandro Inarritu presenta, prodotto da George Lucas, un progetto di realtà virtuale, “Carne y Arena“, che trasporta lo spettatore, a piedi nudi sulla sabbia, nella condizione e nella pelle di un migrante dal Messico agli Usa.

I metal detector alle entrate del Palais ci ricordano che migrazioni di massa e terrorismo dell’Isis oggi sono storicamente e geopoliticamente connessi. Sugli schermi passeranno Fatih Akin con “In the fade”, su un eccidio da bomba, e “Le vénérable W” di Barbet Shroeder, sull’islamofobia tra i birmani buddisti, la religione più pacifica del mondo. C’è l’emigrazione “a rovescio”, operai tedeschi odiati in Bulgaria, di “Western”, c’è l’emigrazione “politica” degli anni ’70 in “Dopo la guerra” dell’italiana Annarita Zambrano a “Un certain regard”.

È da augurarsi che almeno qualcuno produca su questo tema emozione e poesia come l’Aki Kaurismaki di “L’altro volto della speranza”.

Fonte: Huffington Post


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