Emanuela Orlandi e quella strada possibile orizzonte di verità

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Nella scomparsa di Emanuela Orlandi c’è una strada, non approfondita in oltre trent’anni d’indagini, che riconduce all’universo umano maggiormente frequentato dalla cittadina vaticana: quello all’ombra del Cupolone.

Perché se è vero che durante la prima inchiesta giudiziaria (1983-1997) fu inoltrata più di una rogatoria alla Santa Sede per acquisire le testimonianze di alcuni suoi alti rappresentanti del tempo, è altrettanto doveroso rilevare la mancata esplorazione, nei pressi delle Mura Leonine, dell’intero humus sociale della giovane. Dal quale invece si sarebbero potute attingere informazioni meritevoli di attenzione. Come quella che vuole Emanuela Orlandi infastidita da un ecclesiastico nei Giardini Vaticani pochi mesi prima della scomparsa. Un episodio che lei raccontò a un’amica il cui nome non compare fra quelle sentite dagli inquirenti. Costei ignora il nome dell’individuo, non domandato a Emanuela per umano timore nell’affrontare un argomento delicato per l’epoca e per l’anagrafe delle due, e sul quale la stessa Orlandi si limitò a dire che era uno vicino a Wojtyla.

Un indizio generico, ma più che sufficiente per un’analisi ad angolo giro del circuito di persone col quale la studentessa di flauto trascorreva il suo tempo libero fra i giochi all’aperto all’interno del Vaticano e le attività della parrocchia di S. Anna. E chiedersi, per esempio, che tipo di fastidio fu; se quell’episodio è conosciuto anche da altre sue amiche; se capitò soltanto a lei o, loro malgrado, anche ad altre o altri del gruppo; infine, se vi fossero adulti, anche indossanti un abito talare, che sovente s’interfacciavano con lei quando era sola o quando era insieme alla sua compagnia.

Domande legittime e inevitabili da porsi dopo un trentennio e due inchieste giudiziarie concluse sempre con un’archiviazione e che hanno perlopiù affrontato piste – terrorismo internazionale, alta criminalità romana – lontane dal cosmo della vittima (le sue abitudini, i suoi luoghi, i suoi contatti). Una dimensione, quella del privato di Emanuela Orlandi, che andrebbe invece scandagliata a dovere. Anche per capire sue eventuali connessioni con quanto poteva avvenire poco più lontano la porta del Filarete, tipo su corso Rinascimento, di fronte al Senato, dove la ragazza fu notata l’ultima volta mentre era insieme a una compagna della scuola di musica, mai identificata, che molto probabilmente vide con chi andò via Emanuela la sera di quel 22 giugno 1983.

Un’altra allieva della “Da Victoria”, invece, racconta che, nella tarda primavera di quell’anno funesto, all’uscita dalle lezioni, vide Emanuela salire a bordo di una macchina scura. Non sappiamo se fu la sola ad aver mai assistito a un episodio simile, ignoriamo di chi fosse quella vettura, ma possiamo rilevare che, in un verbale d’interrogatorio del padre, Ercole Orlandi, del 9 luglio 1983 – dove è scritto come la figlia andasse al liceo scientifico e a scuola di musica – nemmeno mezzo rigo fu dedicato a “come” ritornasse a casa dalla “Da Victoria”. Sorprende l’assenza di quest’informazione, perché siamo a diciassette giorni dal fatto, avvenuto all’uscita dalla scuola di musica, cioè proprio quando Emanuela Orlandi doveva rientrare in famiglia. È vero che quella sera aveva appuntamento con gli amici al “Palazzaccio” e che mentre andava al conservatorio di piazza S. Apollinare fu fermata dal fasullo rappresentante di cosmetici guidatore di una BMW, ma occorre pure considerare che, se quella macchina scura era già andata a prenderla, lei non avrebbe avuto problemi a salirvi anche quella sera fatale, poiché si fidava del guidatore come avrebbe fatto qualsiasi altra persona al suo posto.

I fatti descritti e le relative domande sono banchi di nebbia più che sufficienti per chiedere una riapertura delle indagini, possibile grazie a spunti finora trascurati, così da diradarli e, a quel punto, rendere eventualmente logico e comprensibile il percorso di altre strade per porre fine a un dramma lungo trentaquattro anni.


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