Marcia per l’amnistia. Alcuni elementi di riflessione per tutti noi, che vogliamo (e dobbiamo) fare informazione

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Ci sono molti elementi che dovrebbero interessarci, nella IV Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà indetta per domenica 6 novembre dal Partito Radicale Nonviolento Transpartito e Transnazionale. I convocatori della marcia hanno scelto il 6 novembre perché è il giorno, nell’ambito delle celebrazioni dell’Anno Santo, dedicato ai detenuti e alla più generale comunità penitenziaria. Parte dal carcere di Regina Coeli, e dopo aver “toccato” alcuni altri luoghi simbolo e istituzionali, confluirà a piazza San Pietro. Una marcia dedicata a due persone: il leader radicale Marco Pannella, che fino all’ultimo suo respiro, si è speso per gli ultimi tra gli ultimi: i detenuti appunto, e il mondo carcerario; e l’attuale pontefice: papa Bergoglio fin dall’inizio del suo mandato ha rivolto una speciale attenzione a quel mondo, e compiuto una serie di gesti simbolo, come l’abolizione della pena di morte a Città del Vaticano, e l’introduzione del reato di tortura nei suoi ordinamenti (cosa, quest’ultima che l’Italia ancora non ha fatto).

E veniamo agli “elementi” che, in quanto operatori dell’informazione, “intermediari” (mi si passi il termine) tra un pubblico quotidianamente sommerso da una quantità di “notizie”, e i “fatti veri”, quelli che costituiscono l’elemento pregnante di un avvenimento sui quali richiamare e concentrare attenzione e stimolare riflessione.

Il primo elemento: nel giorno della marcia oltre 14mila detenuti di tutti gli istituti penitenziari italiani intraprenderanno uno sciopero della fame di dialogo e di speranza. Molti di loro hanno già cominciato. Nessuno ne parla, nessuno ha colto la “notizia”. Eppure vorrà ben dire qualcosa che 14mila detenuti danno corpo e vita a una iniziativa nonviolenta di massa come questa. Pensate: i detenuti in Italia sono circa 54mila. Non è un “evento”? Non è una “notizia” che quei 14mila informati per canali che non sono la televisione e i giornali abbiano deciso di essere loro speranza, e non solo nutrirla? Pensate ora a uno scenario di questo tipo: due o tre detenuti per perorare una loro causa, per una loro rivendicazione, sequestrano un paio di agenti di polizia penitenziaria o un paio di operatori, salgono sul tetto di un carcere, minacciano sfracelli se le loro richieste non verranno accolte. “Naturalmente” televisioni e giornali si mobilitano, e l’evento ha risonanza, eco, “pubblicità”. Allora: l’iniziativa violenta viene ampiamente pubblicizzata; l’iniziativa nonviolenta viene ignorata. Che lezione se ne dovrebbe ricavare? Ovviamente non si invoca censura per il caso dei detenuti sequestratori e violenti. Ma siamo sicuri che sia giusto ignorare le iniziative delle migliaia di detenuti nonviolenti?

Altra “notizia”, altro evento: se si scorre l’elenco delle adesioni alla marcia una cosa che colpisce è la massiccia presenza di organizzazioni e personalità del mondo cattolico: Caritas e Comunità di Sant’Egidio, Beati costruttori di pace e gruppo Abele con tutto l’arcipelago di Libera; le Acli e una quantità incredibile di “don”; moltissimi di loro sono impegnati quotidianamente nella realtà carceraria; e per limitarsi a qualche nome: don Antonio Biancotto, cappellano del carcere Santa Maria Maggiore di Venezia; don Albino Bizzotto, presidente dell’associazione Beati i costruttori di pace; don Mario Cadeddu, già cappellano carcere di Macomer; don Ettore Cannavera, presidente dei cappellani delle carceri sarde; suor Fabiola Catalano; don Luigi Ciotti; fra’ Loris D’Alessandro, cappellano del carcere Pagliarelli di Palermo; don Antonio Mazzi, presidente della Fondazione Exodus; don Nicolò Porcu; fra’ Beppe Prioli, fondatore dell’Associazione ”La Fraternità”; don Piergiorgio Rigolo, cappellano del carcere di Pordenone; don Vincenzo Russo, cappellano del carcere Sollicciano di Firenze; don Sandro Spriano cappellano del Carcere Rebibbia di Roma…

Intervistato da “Radio Radicale”, il portavoce della Conferenza Episcopale Italiana don Ivan Maffeis dice: “La CEI guarda con attenzione a questa iniziativa e come Segreteria generale dà una convinta adesione; l’iniziativa è vista da parte nostra come una occasione proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e più in generale il mondo politico sulla situazione in cui il nostro sistema penitenziario versa. L’augurio, e voglio metterci anche l’impegno,  è che ci sia una accoglienza delle istanze portante avanti proprio per superare il degrado in cui i detenuti, ma non solo i detenuti (penso agli agenti, ai volontari, agli educatori), oggi si muovono. Si è trattata di una decisione maturata con il Segretario generale, Monsignor Nunzio Galantino; il presidente Bagnasco è stato informato e condivide le finalità dell’iniziativa.  Ci si confronta con un mondo, quello delle carceri, per certi versi invisibile, eppure si tratta di una realtà pesante: penso alla lunga lista di suicidi che avvengono nelle prigioni, a queste vite spezzate, penso alle persone fragili che sono detenuti per reati minori. Spesso in questi luoghi manca una rete di appoggio, spesso offerta dai volontari o da una certa parte di umanità di chi opera dentro, come i nostri cappellani. Intorno a certi temi, possiamo dire scomodi, come l’attenzione verso l’ultimo che abbiamo reso ultimo, o perché per situazioni della vita si è reso ultimo, attorno a certi temi c’è una capacità di chiusura, una capacità di silenziare anche la parola più alta come quella del Papa. Quelle persone che già sono invisibili per tanti motivi vengono censurate dai mezzi di informazione e ciò diventa una irresponsabilità pesante”.

Sono poi seguite “precisazioni” e “chiarimenti” da parte di monsignor Galantino e del presidente della CEI Angelo Bagnasco: i radicali sono i radicali, hanno detto; e il Vaticano e le sue gerarchie sono e restano Vaticano e gerarchie. Si capisce: dal primo giorno della elezione di papa Francesco è in corso, nelle vellutate stanze dei palazzi vaticani una lotta senza quartiere e di potere; sappiamo tutti che parte della nomenklatura vaticana vede l’attuale pontefice come fumo negli occhi, fermamente determinata a contrastare ogni pur minimo segno di rinnovamento e apertura.

Resta il fatto che il “diavolo” radicale e l’“acquasanta” clericale hanno trovato e trovano punti di intesa; non è qualcosa che merita attenzione e qualche meno superficiale riflessione?
C’è poi la specifica situazione delle carceri. Nonostante la buona volontà del ministro Orlando, del DAP, della stragrande maggioranza dei direttori delle carceri, degli agenti di custodia, volontari ecc., la situazione è sempre disastrosa. Valga per tutto, quello che denuncia il presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPE), Luciano Lucania. Ci spiega che a causa delle celle affollate e strutture di cura che non funzionano, le carceri italiane sono diventati moltiplicatori di patologie. Non solo non si guarisce, si contraggono malattie anche gravi: «Dietro le sbarre, c’è in gioco anche la salute dei detenuti. Alla società viene restituita in molti casi una persona malata. Tra il 60 e l’80 per cento delle persone recluse oggi in Italia soffre di una malattia. In quasi un caso su due si tratta di patologie infettive, mentre tre detenuti su quattro (circa 42 mila) soffrono di disturbi psichiatrici». Secondo i dati della SIMSPE, dei quasi 100 mila detenuti transitati negli istituti italiani nel 2015, 5mila sono positivi all’HIV, 25mila hanno l’epatite C e 6.500 l’epatite B. Ma si tratta solo di stime, perché circa la metà dei detenuti non sa di essere malato. Tra celle affollate, cure e strutture non sempre all’altezza e stili di vita non adeguati, i contagi sono più frequenti che altrove. La tubercolosi, ad esempio, che colpisce molti stranieri, in carcere si contrae dalle 25 alle 40 volte in più: «Dal 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria è passata dal ministero della Giustizia alle regioni», spiega Lucania. «Ma la fase di passaggio non si è ancora conclusa». Così, tra competenze in conflitto e diversi inquadramenti contrattuali, il risultato è che oggi non esistono ancora dipartimenti strutturati per la salute penitenziaria nei sistemi sanitari regionali Tanto meno si sa quanti siano i medici che lavorano in carcere.

Da anni si parla dell’istituzione di un osservatorio epidemiologico. Ogni regione dovrebbe fare il suo, per poi unire i dati a livello nazionale, in modo da prevenire i contagi Finora lo hanno fatto solo Toscana ed Emilia Romagna. «Alcuni istituti hanno grandi spazi dedicati alla salute, altri solo piccole aree», dice Lucania. «Ma non sappiamo in che stato siano davvero gli ambulatori di sezione e che attività ispettiva venga fatta in questi luoghi». Ancora: in alcune regioni si fanno gli screening, in altre no. In certi casi i detenuti tossicodipendenti (il 30 per cento) vengono seguiti, in altri no. Tra promiscuità sessuale, tatuaggi fai-da-te e violenze, le malattie infettive proliferano.

Ecco: sul provvedimento proposto dai radicali, ovviamente, le opinioni possono essere le più diverse. Ma si può, credo, tutti convenire sulla necessità e l’opportunità di questo grande dibattito, di questa collettiva riflessione. Magari a partire da quelle ormai lontane parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II, quando intervenne a Montecitorio, davanti alle Camere riunite, accolto da unanime, scrosciante applauso; e a seguire dagli appelli dell’attuale pontefice, e dal messaggio – l’unico – che il presidente emerito Giorgio Napolitano ha rivolto alle Camere, quand’era l’effettivo inquilino del Quirinale.

a Marcia del 6 novembre è questo che chiede e sollecita.


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