Giancarlo Siani, condannato a morte per le sue inchieste sugli appalti del terremoto

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Ho tra le mani a distanza di trent’anni (anzi trentuno per la precisione) dall’assassinio di camorra che lo uccise a Torre Annunziata presso Napoli, il solo libro di Giancarlo Siani, morto a 26 anni,  che resta uno dei pochi esempi nell’età contemporanea di un giovane giornalista, anzi di un “abusivo” che inviava per telefono al “Mattino” le sue cronache sulla camorra sperando di mettere insieme gli articoli e l’attività necessari per acquisire l’agognata qualifica professionale di giornalista secondo le norme di legge dei primi anni Sessanta del Novecento che ancora la reggono. “A condannarlo a morte – come scrive il napoletano Roberto Saviano che ha scritto una  breve prefazione a 30 anni dal delitto pubblicato dalla Iod edizioni, – “erano state le ricerche che stava conducendo sulla ricostruzione seguita al terremoto dell’80, le inchieste sul grande business degli appalti che aveva gonfiato le tasche di politici, imprenditori, e soprattutto camorristi.

A condannarlo a morte furono infine quelle quattromila battute pubblicate sul Mattino del 10 giugno 1985 in cui Siani avanzava l’ipotesi che l’arresto di Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuvoletta per evitare una guerra con il clan di Bardellino. Quell’articolo che fece traboccare il vaso: i clan non potevano più sopportare che un cronista alle prime armi rivelasse i loro rapporti con il mondo della politica e si permettesse persino di farli passare per infami. La soluzione era lì, nero su bianco, ma non si ebbero nè il coraggio nè l’umiltà di vederla. E così si moltiplicarono le tesi assurde sulla sua morte, volte a gettare discredito sulla sua morte e ad allontanare il più possibile il movente di questo omicidio da quello che era realmente. La più infamante era quella che per anni pesò sulla memoria di Giancarlo e sulla sua  famiglia,era l’ipotesi secondo cui, frequentando un bordello di via Palizzi Giancarlo si sarebbe imbattuto in un magistrato o in un politico e per questo era stato ucciso, per evitare che potesse creare problemi a quel potente.

Un castello di carta, puro  fango che facendo passare Siani per un frequentatore di giri di “droghe e puttane” oltre a sviare le indagini, toglieva credibilità a quello che pensava e scriveva. Suggerire che era un poco di buono, che la morte non riguardava poteri criminali e connivenze, era l’ennesimo modo per rendere innocenti un territorio e una cultura che invece erano conniventi.

Leggendo o rileggendo gli articoli contenuti nel volume che si intitola FATTI DI CAMORRA (2016,IOD,pagine 202,Napoli) si può capire ancora una volta che nel libro sono contenuti gli articoli di un giornalista che non mira al gossip, che non riduce l’informazione a mero gioco dello scoop, che non vuole punire nè delegittimare,non accusa sulla base di semplici indizi.

“Giancarlo Siani-scrive a ragione Saviano e sono d’accordo con lui-aveva capito che sono queste le armi più forti che abbiamo contro le mafie, armi che le mafie temono più delle manette, più del carcere. “


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