Cosa ci spinge ad aspettare ore per inquadrare un occhiale da sole che nasconde il vuoto buio di una perdita?

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Con il microfono in mano, come uno scettro che fra poco conterrà una pietra preziosa: un’intervista. Non lo mollo un secondo, nonostante le batterie che piano piano si scaricano e vanno sostituite. Le mie, quelle mentali, invece devono rimanere sempre accese. Le gambe pronte a scattare per rincorrere l’avvocato e il pm, che forse arriveranno a minuti. Basta una battuta, due parole giusto per montare il pezzo, per completare la storia. Sono le undici, fra poco, al massimo mezz’ora tornerò in redazione a concludere il lavoro. “Per l’una qui finisce tutto e torni”…è ottimista il mio collega, richiamato per chiudere il servizio. A quell’ora, con o senza notizia, il tg va in onda.

Sono passate otto ore da quando sono qui, davanti ad una porta aperta. Una porta che purtroppo serve molto più spesso ad entrare che ad uscire. E’ la soglia di Regina Coeli. I colleghi sono tanti, presidiamo il territorio dalle nove di questa mattina. I nostri sguardi si sono incrociati mille volte almeno. Ci scrutiamo, qualche volta in modo comprensivo – in fondo siamo tutti sulla stessa barca – qualche altra volta con aria di sfida: “io non mollo, non sarò mai il primo ad andare via”. Alterniamo le camminate parallele al mulo dell’edificio, alle sedute precarie sulle transenne arrugginite o sul ciglio del marciapiede. Appoggiati a terra a fianco alle nostre telecamere, respiriamo lo smog di un’intera giornata sul lungotevere, all’altezza dei tubi di scappamento delle volanti della polizia e dei motorini che corrono ininterrottamente nella strada al livello più basso. A fine giornata qui non riesci più a respirare, la gola pizzica, il fiato diventa corto, affannato.
I pensieri che si alternano sono semplici: notizia, fame, sete, il bagno più vicino, la posizione migliore per lo scatto.

Un’attesa interrotta solo dalle telefonate in redazione per dire che no, non è successo ancora nulla. Non abbiamo notizie. Tutti aspettiamo una sola cosa: una battuta dell’avvocato che difende Vincenzo Paduano, l’assassino di Sara di Pietrantonio, la ventiduenne morta bruciata (forse viva) alla Magliana, periferia di Roma. Fino al giorno prima era difficile persino scrivere un pezzo freddo dalla redazione: la storia era troppo atroce. Poi è cominciata l’attesa davanti alle porte. Prima quella della casa della famiglia, alla Magliana. Un pomeriggio sotto il sole a cercare un’immagine, una finestra da cui si affacci qualcuno, la lacrima di un parente o un vicino di casa. Poi Regina Coeli e le facce, tra colleghi e troupe, sono sempre le stesse.

Oggi il silenzio dell’avvocato. È questo che siamo riusciti a portare a casa. Un insolito silenzio nel giorno dell’interrogatorio di garanzia: neanche una parola per difendere il suo assistito, reo confesso dell’omicidio. Vero è che – ci diciamo per darci una spiegazione – in fondo si tratta di un avvocato d’ufficio. Questo caso, magari, gli sarà capitato tra capo e collo. Così cerchiamo di consolarci per quest’appostamento inutile, culminato con la rincorsa del povero legale dalla scaletta del lungotevere, fino al portone del carcere  e viceversa. L’operatore, ancora più frustrato porterà a casa a malapena le inquadrature dell’auto del pm che sfreccia, purtroppo ripresa solo da dietro. Di coperture – larga, stretta, zoom in, zoom out, tilt alto-basso e viceversa – invece ha avuto il tempo di girarne in quantità. Per nove ore, purtroppo, non c’è stato altro da fare.

Chiediamo notizie, buttiamo uno sguardo al gabbiotto dei secondini, sono le 4: l’avvocato Criscuolo si è intravisto, questa volta la ressa (dopo due o tre falsi allarmi, serviti solo a smorzare la tensione) è giustificata. Microfono in mano, braccio pronto ad allungarsi più di quello del collega a fianco…senza sporgersi troppo, perché nonostante la concorrenza, non si può ‘impallare’ l’inquadratura al suo operatore. Nulla: sono usciti dal retro. Sono stati più furbi di noi questa volta. Le guardie carcerarie però, ce lo confermano solo un’ora dopo.
L’ultima ora in piedi, quella del semicerchio di microfoni intorno all’intervistato inesistente, è la più pesante. Cominciano a farsi sentire anche i crampi. Nessuno mollerà, ancora per la mezz’ora successiva. Nessuno può andare via fino a quando un graduato dalla redazione continuerà a ordinare di mantenere la posizione “perché se non vanno via gli altri, non vai via neanche tu”. I colleghi sono diversi, ci sono quelli infidi, quelli disponibili, quelli che preferiscono non dire, quelli che conoscono il valore – e il prezzo – della condivisione. E io li osservo, per imparare a muovermi, la prossima volta.

È esattamente in quell’ultima ora, la più dura, che cominciano le domande di senso. A se stessi. È in quel momento che la passione per il mestiere fa a botte con la stanchezza, e il dolore fisico contrasta con l’amore per la cronaca…ché in fondo “il vero giornalista è il cronista, è tutto il resto è contorno”, dicono i più anziani. Però l’appostamento per cercare la lacrima, e la rincorsa, l’attesa, in fondo sono un gioco che vale la candela? Davvero: perché raccontiamo queste storie terribili? Che cosa ci spinge a trovare le notizie? Che cosa ci spinge a leggerle? Che cosa ci spinge ad aspettare ore per poi inquadrare un occhiale da sole che nasconde il vuoto buio di una perdita?

La nostra passione di giornalisti non basta a spiegare; la morbosità, il voyerismo dei lettori/telespettatori/internauti sono una motivazione banale. Una volta feci questa domanda a Ferruccio de Bortoli. Gli chiesi se anche lui come noi avesse cominciato così: raccontando omicidi. E mi raccontò che sì, ancora ventenne lo mandarono a seguire il caso di una donna uccisa alla periferia di Milano: allora i giornalisti accedevano alla scena del crimine. Il carabiniere gli chiese se volesse vedere il corpo martoriato. Lui rispose di sì: “La scena fu orribile – ricordava – e la storia era veramente squallida”. Allora, insistetti: perché, da chi siamo costretti a raccontare il lato nero della realtà? De Bortoli, mi rispose con un paio delle sue frasi concise ma incisive come lame: “La cronaca nera è parte della nostra vita, è il lato oscuro della nostra esistenza. Del resto era un autore francese a dire che nel male c’è più romanzo che nel bene. Io spero che non sia così, ma credo che non abbia torto”.


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