Egitto, tribunale condanna a morte due giornalisti. Consulente Regeni resta in carcere altri 15 giorni

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Nel giorno in cui si decideva della libertà per Ahmed Abdallah, attivista e consulente della famiglia di Giulio Regeni, un tribunale egiziano condannava a morte due giornalisti e altre quattro persone per spionaggio. Tra questi il direttore di Al Jazeera Qatar, Ibrahim Hilal, contumace come Alaa Sablane, l’altro collega della tv satellitare coinvolto in un’inchiesta che vede imputato anche il deposto presidente egiziano Mohamed Morsi.
Il giudice Mohamed Sharin Fahmi ha inviato le sentenze al Grand Muffi d’Egitto, organismo giudiziario di garanzia che potrà confermarle o respingerle non oltre il 18 giugno, data in cui è atteso anche il verdetto su Morsi già condannato a morte dieci mesi fa per avere organizzato la sua fuga da un carcere alle porte del Cairo durante la rivoluzione del 2011. Il processo, iniziato oltre un anno fa, si è svolto in 93 sessioni. I processati sono accusati di avere ottenuto illegalmente documenti legati alla sicurezza dello Stato e di averli consegnati al Qatar.
La sentenza era scontata. Dopo il colpo di Stato militare del 3 luglio 2013 con cui Morsi fu destituito, guidato dall’attuale presidente Abdelfatah al Sisi, le nuove autorità hanno lanciato una dura campagna di repressione contro i Fratelli musulmani, dichiarati organizzazione terroristica, così come contro tutta la dissidenza politica nel Paese.  Stesso trattamento viene riservato anche ad attivisti e giornalisti che denunciano e contrastano il regime.
Proprio nelle ore in cui veniva emessa la sentenza per il processo Morsi, i giudici di un altro tribunale egiziano disponevano altri 15 giorni di custodia cautelare per Ahmed Abdallah, il presidente della ong ‘Coordinamento egiziano per i diritti e la libertà’  (Ecrf) arrestato all’alba del 25 aprile, quando membri di movimenti e partiti politici si stavano preparando per una serie di proteste su scala nazionale contro la cessione delle isole Sanafir e Tiran all’Arabia Saudita. L’organizzazione a cui fa capo Abdallah ha fornito assistenza legale alla famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore italiano scomparso lo scorso 25 gennaio al Cairo e ritrovato morto il 3 febbraio in un sobborgo di Giza. All’udienza erano presenti anche alcuni diplomatici europei accreditati al Cairo, che sono stati “invitati ad uscire dall’aula” insieme ai familiari di Abdallah e ad altre persone presenti, inclusi giornalisti, dopo che l’attivista aveva mostrato due cartelli, uno con scritto in arabo “Verità per Giulio Regeni” e l’altro “Stop alle sparizioni forzate”.
“Dopo aver mostrato il cartello di Regeni, in aula si è scatenato un putiferio e le guardie di sicurezza hanno sequestrato i cellulari e macchine fotografiche per cancellare le immagini”, ha raccontato Mohaded Morsi, executive chief dell’organizzazione non governativa. Secondo Anas Sayed, avvocato di Abdallah e membro della Ecrf, il presidente della ong potrebbe comunque essere rilasciato nei prossimi giorni, in attesa che la magistratura competente si pronunci sul ricorso presentato dalla difesa. Ecfr ha lanciato nei giorni corsi una petizione per la liberazione immediata del proprio presidente.
La campagna sta facendo pressione affinché le autorità egiziane rilascino Abdallah in maniera incondizionata, essendo detenuto per reati d’opinione e avendo solamente esercitato pacificamente il suo diritto alla libertà d’espressione. L’accusa che pende su di lui è di quelle che in Egitto si ‘pagano’ con la pena di morte: terrorismo.
Ma l’unica vera ‘colpa’ di Ahmed Abdallah è quella di aver sempre difeso lo stato di diritto e di combattere le disuguaglianze sociali, politiche ed economiche del suo Paese. E oggi di chiedere verità per Giulio Regeni.


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