Guerra e pace in Colombia

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Districarsi tra speranze e odi, successi e catastrofi dell’universo bolivariano, che letteratura, cinema d’avventura e serie TV hanno ulteriormente caricato di pathos, richiede di tirare qualche filo del passato. Altrimenti non si riesce a comprendere questo presente schizofrenico: l’impennata dell’economia che ha fatto gridare al miracolo e saltare l’asticella del PIL, poi d’improvviso il terrore del baratro in fondo al quale c’è la stagnazione; la pace a portata di mano, già domani mattina, dopo decenni di alle opposte e inaudite violenze che strangolano la quotidianità, e il rischio assurdo di lasciarsela sfuggire una volta ancora. Quelle figure placide e rotonde con cui Fernando Botero proietta nei musei e nelle gallerie d’arte del mondo un’idea di Colombia non sono malate di obesità, trasfigurano bensì il desiderio di quiete della sua gente, sono gonfie di ciò di cui sentono la mancanza. Rappresentano la tragica ironia che è possibile cogliere nelle conversazioni di caffè a Bogotà e a Medellin, così come negli angoli più impervi del paese.

“La Colombia è capace di crudeltà che possono sfuggire a chi si lascia abbagliare dai suoi miti, ma è proprio questa crudeltà a rendere tanto sfuggente la pace”, dice Raul Reyes. A me sorprende questa riflessione filosofica sui colombiani, più che sulla loro terra, da parte di un modesto ragioniere comunista divenuto il vicecomandante in capo delle FARC, una guerriglia forte come un esercito tradizionale. Oltre 20mila uomini distribuiti su vari fronti di battaglia, dotati di qualche razzo antiaereo e almeno un elicottero. Parla in piedi, con la schiena contro una grande acacia e gli stivali nel fango, sotto l’eterna acquerugiola della selva del Caquetá, in mezzo a due fiumi copiosi come lo Yari e il Caguan, la cordigliera dei Picachos a ovest e la capitale, Bogotá, 2mila e 300 chilometri più a sud. Di qui verso oriente è terra di latifondi incolti, contadini poveri, smeraldi, avventurieri, sequestri di persona e cocaina.

L’ accampamento dello stato maggiore in cui mi hanno condotto per incontrarlo dopo contatti internazionali e lunghe attese, gira irregolarmente attorno a una tenda mimetizzata grande come una piazza di paese.  Dentro ho contato una cinquantina di addetti alle comunicazioni, ciascuno dei quali impegnato davanti al proprio computer. Però adesso è scomparso alla nostra vista, ingoiato dal labirinto della vegetazione subtropicale. Abbiamo camminato oltre un’ora per allontanarcene. Malgrado la tregua in atto e la neutralità del vasto territorio in cui ci troviamo, decretate per garantire il dialogo tra insorti e governo, la guerriglia teme costantemente i bombardamenti aerei. Ed ogni visitante comporta un rischio ulteriore, pur se calcolato. E’ una regola che nessuno può disattendere. Disperdersi il più possibile, la cautela che ne consegue.

Il vicecomandante me lo conferma, cogliendo il mio disagio nel reggere in una mano il microfono con cui registro le sue parole, mentre con l’altra tengo alta la luce che serve alla telecamera e guardo impotente il taccuino degli appunti che ho infilato nel taschino della giacca inzupparsi sotto la pioggia. “Qui è più scomodo, ma anche più sicuro”, commenta assestandosi la Browning 9 millimetri appesa alla cintura. Senza interrompersi, espone le difficoltà delle FARC a trovare un’intesa con uno stato da sempre al servizio dei potentati del caffè e del petrolio. Con un’insistenza pacata, non sempre sostenuta da argomenti convincenti, nega qualsiasi coinvolgimento della guerriglia nel narcotraffico, così come il reclutamento forzato di adolescenti. “Abbiamo ricevuto da poco, qui dov’è lei ora, il presidente della Borsa di New York: sarebbe venuto se queste accuse infamanti fossero credibili?”, replica con studiata indignazione.

Questo vecchio brandello d’intervista realizzata per la RAI-TV è ormai un reperto di archeologia politica: nel frattempo Raul Reyes è stato ucciso da un missile teleguidato fornito dagli Stati Uniti all’esercito regolare, quando il negoziato di pace con l’allora presidente Andrés Pastrana cui allude era già fallito. E’ morto di una crisi cardiaca anche Manuel Marulanda Velez, l’anziano, mitico fondatore delle FARC, una vita intera sparando dalla foresta contro la città in nome del popolo sfruttato e perseguitato. E altri alti dirigenti ancora sono stati liquidati da bombe e tradimenti. Tuttavia la crudeltà attribuita da Reyes al sistema di potere colombiano resta un precedente utile a capire cosa accade adesso in uno dei maggiori paesi del continente americano. Siamo a una svolta.

Lo scorso 23 marzo il governo del presidente Manuel Santos e la più longeva guerriglia dell’America Latina e del mondo, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, le FARC, avrebbero dovuto finalmente firmare la pace. Lo avevano annunciato pubblicamente e poi confermato più d’una volta entrambe le parti, negli ultimi tempi delle trattative in corso ormai da 2 anni a Cuba. Benedette da papa Francesco, dall’ONU, dagli Stati Uniti e in un passato già lontano anche da un impegno mediatore dell’Italia. Un complesso e articolato trattato di pace per concludere un’odiosa guerra civile. L’accordo affronta aspetti etici, giuridici, economici e militari, connessi gli uni agli altri in una catena suscettibile di saltare per intero se viene meno anche un solo anello.

Porre fine a un conflitto armato come quello che dissangua la Colombia da oltre settant’anni è un’impresa più lunga e non meno tormentata del ritorno di Ulisse da Troia a Itaca. E come quello, sempre in pericolo di naufragare. Perché in Colombia tutti diffidano di tutti. E a nessuno gliene mancano motivi. C’è anche questo sentimento reale e attualissimo nell’ allegoria della centenaria e fatale solitudine raccontata da Gabriel Garcia Marquez. Insieme all’idea del tempo che non cessa di trascorrere e appena cambia qualche tratto dell’espressione nei volti dei protagonisti: dalla spavalda sicurezza del coronel Aureliano Buendía a quell’inquieto sguardo di Raul Reyes, attraverso le gocce che dalla visiera del berretto militare gli scivolavano sulla faccia da furetto.

Nella nostra realtà storica a intromettersi non sono il capriccio degli dei o la curiosità degli uomini narrati da Omero. E neppure la fantasia epica che volge in letteratura la leggenda più che il ricordo delle battaglie bolivariane. Il sabotaggio viene da concreti interessi contrari alla pace, soprattutto tra i latifondisti, i grandi allevatori, i narcotrafficanti e certi settori delle forze armate, oltre che nella parte più oltranzista dell’opposizione politica, con alla testa l’ex capo dello Stato Alvaro Uribe, di vocazione estremista e mai rassegnato, accusato in Parlamento di mantenere vincoli con il terrorismo dei paramilitari. I nemici della pace sono insomma numerosi e tutt’altro che inermi.

Ce ne sono anche nella stessa guerriglia: tra quanti non cessano di temere che sciolta l’organizzazione combattente e consegnate le armi possano finire vittime inermi di omicidi mirati, com’è avvenuto più volte in passato e di nuovo si sta profilando da qualche mese a questa parte in diverse zone del paese; così come tra alcuni capi guerriglieri avvezzi ai privilegi del comando e dubbiosi della possibilità di riuscire a reinserirsi utilmente nella società civile. Può pertanto tornare a dominare nelle FARC l’idea di non disarmare completamente, di conservare alcune enclave-rifugio nel caso in cui la pace venga una volta di più tradita. Ma l’addio alle armi è stata la premessa del negoziato.

La Colombia è più che un paese, è l’esperienza di un’infelicità umana solo in parte mimetizzata dalla natura incantevole che va dalle innumerevoli sfumature di verde della selva all’ azzurro trasparente del mare caraibico attraverso saliscendi mozzafiato: è un desiderio sempre sul punto di compiersi.  “E’ tutto vero e ciascuno ha le sue ragioni, ma non c’è niente di poetico in quest’interminabile carneficina, da tempo ormai fine a se stessa: bisogna finirla! La pace ha dei rischi, vanno ridotti al minimo, ma poi governo e combattenti devono affrontarli”, mi ha ripetuto Antonio Navarro Wolff da Bogotà. E’ da tempo un convinto sostenitore della trattativa e della pace. E non parla per sentito dire.

Nella saga delle guerriglie colombiane il suo è stato un nome leggendario, prima di smobilitare col suo gruppo, l’M19, oltre vent’anni fa, per impegnarsi in politica entrando da senatore in Parlamento e al governo come ministro. Meno fortunato, il suo comandante e massimo esponente del loro gruppo armato, Carlos Pizarro, fu assassinato a sangue freddo sull’aereo delle Linee Nazionali su cui era appena salito, un mese e mezzo dopo essere tornato alla vita civile. Insieme avevano condotto colpi di mano imprevedibili, sfociati talvolta in tragedie sanguinose con l’intervento dell’esercito. Dal 1984 a oggi, sono molte centinaia i dirigenti politici della sinistra ammazzati da sicari che tengono in ostaggio il paese.

La secolare turbolenza colombiana ha girato tutta attorno allo spartiacque della riforma agraria, dalle guerre civili e l’indipendenza nazionale fino alla fine dello scorso millennio, quando ad essa si sono sovrapposti gli interessi del narcotraffico. I massacri di contadini sono stati un cinico strumento di lotta politica, così come l’attentato personale al leader rivale. Soares e Naritomo, specialisti della materia e consulenti del presidente Obama, affermano che la Colombia è il paese del mondo in cui maggiori sono i danni provocati dalla violenza: 20mila morti dal 1994, 411 militari e 641 guerriglieri solo nel 2013. In una stima del Economist, la pace porterebbe un aumento immediato del PIL pari all’1 e mezzo per cento.

La lotta sociale armata e il bandolerismo che ne è un periodico residuo, la criminalità comune, le bande paramilitari organizzate e finanziate dai latifondisti e dal narcotraffico, la repressione dello stato spesso fuori controllo hanno compiuto un eccidio continuato e smisurato. I desplazados, le persone costrette ad abbandonare le zone coinvolte negli scontri sommano attualmente a 4milioni e mezzo in un paese di 45 milioni di abitanti. I danni materiali sono incalcolabili e tra i motivi non secondari che ostacolano la pace, poiché devono essere previsti risarcimenti economici colossali. E anche il riconoscimento dovuto agli spiriti feriti e offesi ha un costo.

Il groviglio di delitti e infamie da sbrogliare coinvolge intere generazioni. Jorge Eliécer Gaitán, un avvocato allievo del grande penalista italiano Enrico Ferri all’università di Roma e candidato dei liberal-progressisti alla presidenza della Repubblica, viene assassinato a rivoltellate per la strada a Bogotá. E’ l’ottobre del 1948, i suoi discorsi hanno acceso le speranze delle masse rurali tanto quanto quelle di gran parte della classe media urbana. L’oratoria ottocentesca di Gaitán piace, entusiasma: ”Il valore dell’uomo è nella sua tenacia, nell’ amore che porta alle sue idee… Conta più una bandiera issata su una vetta limpida che cento trascinate nel fango… La riforma agraria è il nostro vessillo… Non ho paura, l’oligarchia sa che se mi ammazza ci vorranno cinquant’anni per ricondurre negli argini la collera della Colombia…”.

Ma la volontà di potere e la difesa del privilegio spesso prevalgono sul buon senso oltre che sulla razionalità e le parole del leader ucciso diventano un’involontaria ma terribile profezia. Il suo cadavere sta ancora disteso sul marciapiede e già i seguaci, d’improvviso depredati della speranza, percorrono a migliaia la capitale devastandone il centro e i quartieri del patriziato come un terremoto. Le fotografie dell’epoca mostrano corpi straziati e macerie, la città appare irriconoscibile. Lungo certe strade non si vede più un solo edificio risparmiato dal piccone o dalle fiamme.

La storia lo chiamerà il Bogotazo, l’insurrezione rabbiosa di Bogotà. E’ solo l’inizio. A migliaia, dalle campagne cominciano a muovere verso la grande città gruppi di contadini con in pugno vecchi schioppi, qualche carabina automatica, falcetti e machetes. Non meno furiosamente, il governo ha però intanto scatenato la prevedibile repressione: i soldati sparano a vista, fucilano sul posto i partigiani di Gaitán catturati. La fuga degli insorti è altrettanto disordinata della loro violenza. Retrocedono e man mano che lungo il cammino incontrano gli altri manifestanti in arrivo li indirizzano verso le montagne in cui la memoria suggerisce loro di organizzare la resistenza.

Attraverso numerosi avvenimenti e situazioni diverse, prende corpo da quell’evento tragico il movimento armato che darà origine alle FARC e successivamente ad altre formazioni armate irregolari. Quarant’anni dopo, continua la catena di lutti per il progressismo colombiano: un altro suo candidato alla Presidenza, Luis Carlos Galán, viene assassinato da due sicari del narcotraffico mentre in un comizio rinnova la promessa di riscatto già proclamata da Gaitán. Ho assistito all’ attentato: non ho visto sparare, ma mi trovavo a non più d’un centinaio di metri. La folla appariva attonita. Lo sgomento potette più della rabbia. Ma probabilmente è il ricordo, meglio l’incubo del Bogotazo che l’ha trattenuta da un nuovo impazzimento.  L’ episodio è l’innecessaria conferma della continuità storica del feroce conflitto sociale che dilania il paese.

Le conseguenze di un eventuale fallimento anche di quest’ ultimo tentativo di porvi fine, ad accordo quasi raggiunto, sarebbero catastrofiche. Dopo un decennio di crescita, l’economia colombiana al pari di quella dell’intero Sudamerica sta frenando. La caduta del prezzo internazionale del petrolio taglia i profitti dell’export. L’inflazione si avvicina al 10 per cento e il fenomeno meteorologico conosciuto come El Niño complica la produzione agricola, l’aumento dei tassi d’interesse limita il credito e l’occupazione. La pace è anche un investimento economico, darebbe ulteriore credibilità al paese. Sarebbe la definitiva dimostrazione che i colombiani sono capaci di liberarsi della loro crudele solitudine.


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