Genocidio armeno e 25 Aprile. Due anniversari “imbalsamati” nella ritualità

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Tra il 24 e il 25 Aprile si sono celebrati due anniversari diversi tra loro, ma di assoluta importanza storica: il 101° del Genocidio di 1 milione e 500 mila armeni cristiani da parte dei “Giovani ufficiali turchi” musulmani nel 1915; il 71° della Liberazione dal nazifascismo. Due date scritte col sangue, due momenti in cui i popoli si dovrebbero ritrovare uniti dalla memoria storica: per non dimenticare e per non commettere gli errori del passato. Ormai, siamo invece passati dalle celebrazioni popolari all’imbalsamatura della ritualità.

A livello mondiale, ma anche e soprattutto nell’Unione Europea, si cerca di non ricordare il primo grande sterminio (con la supervisione di ufficiali prussiani) di una popolazione che viveva da secoli nel territorio turco e che aveva contribuito a costruire la Turchia moderna dalla ceneri dell’Impero ottomano. E’ più importante per le cancellerie europee tenere rapporti di “buon vicinato” e di cooperazione militare-economica con il fondamentalista Erdogan, padre-padrone di una Turchia sempre più autoritaria, dove vige la censura e l’arresto preventivo dei giornalisti, ambiguamente collegata con gli aguzzini dell’ISIS, impegnata a sfruttare la situazione di “guerra atipica” che si sta combattendo ai confini con Siria ed Iraq, per sterminare i curdi indipendentisti e occupare porzioni di territorio iracheno e siriano. Per non parlare del ricatto oltraggioso nei confronti dell’UE su migranti e rifugiati: miliardi di euro in cambio delle espulsioni, pur sapendo che dietro ai barconi della morte e alle tratte di esseri umani ci sono proprio la Mafia turca e apparati collusi di Ankara.

Finora, era stata la tenace resistenza della Francia a bloccare l’ingresso della Turchia nell’UE, vista anche la numerosa presenza della comunità armena (tra i 500 e 750 mila). Ma le pressioni degli Stati Uniti (non hanno ancora riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno, nonostante le promesse elettorali del presidente Obama), dove la comunità conta 1 milione e 250 mila individui e, soprattutto, della Germania (qui invece è massiccia la presenza di immigrati turchi: 3,2 milioni), hanno fatto sì che uno spiraglio verso l’annessione della Turchia nell’UE si riaprisse, dopo lo stop degli anni passati.

Sarà per questo clima di “intesa cordiale”, allora, che dell’anniversario del genocidio armeno non si è parlato su tutti i media europei? Sarà per questa riscoperta di una Turchia “collaborativa” con l’Occidente e ufficialmente alternativa all’integralismo islamico imperante in Medio Oriente, che i governi europei non hanno partecipato alle celebrazioni nella capitale armena di Erevan, dove era presente solo l’attore George Clooney? E che dire del comportamento del nostro paese, un tempo più sensibile a queste ricorrenze, quando si scopre che un documentario (“Il genocidio armeno” di Andrew Goldberg per la TV pubblica americana PBS), programmato dalla RAI per sabato 16 aprile, a 48 ore dalla messa in onda su RAI Storia è stato sospeso? Oscure le motivazioni: problemi di palinsesto o forse ripensamenti legati a “cortesie diplomatiche” verso l’ingombrante alleato della NATO? Fatto sta che, dopo le proteste della Comunità armena ai vertici di viale Mazzini e alla Commissione di Vigilanza, il documentario è poi stato riprogrammato per domenica 24 aprile alle 23 sempre su RAI Storia.

Si sa che spesso la finzione scenica, la narrativa, i film riescono ad avere un impatto maggiore presso l’opinione pubblica rispetto a documentari o ai saggi storici. E così, accade che un film molto intenso e lirico, dedicato alla tragedia del genocidio armeno, diretto dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, su sceneggiatura della scrittrice di origine armena, Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, pur realizzato nel 2007 e distribuito dalla 01 Distribution della RAI, non sia mai andato in onda sulle reti della TV pubblica!

A questo proposito, andrebbero ricordate le parole lucide e profetiche di Antonio Gramsci, che l’11 marzo del 1916, su “Il Grido del popolo” dedicò un articolo al genocidio:  “…Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità…quando abbiamo sentito che i turchi avevano massacrato centinaia di migliaia di armeni, abbiamo sentito quello strappo lancinante delle carni che proviamo ogni volta che i nostri occhi cadono su della povera carne martoriata e che abbiamo sentito spasimando subito dopo che i tedeschi avevano invaso il Belgio? Così l’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti, che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici…Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. La guerra europea ha messo di nuovo sul tappeto la questione armena. Ma senza molta convinzione… Gli armeni che sono disseminati in Europa dovrebbero far conoscere la loro patria, la loro storia, la loro letteratura…E così quanti sanno che gli ultimi tentativi di rinnovare la Turchia furono dovuti agli armeni e agli ebrei? Gli armeni dovrebbero far conoscere l’Armenia, renderla viva nella coscienza di chi ignora, non sa, non sente….

L’oblio però rischia di offuscare anche la Resistenza. Il 25 aprile viene sempre più imbalsamato come una ricorrenza formale: le corone all’Altare della Patria con la banda militare che intona La leggenda del Piave (canzone militarista, amata dal regime fascista, per pochi anni divenuta anche l’inno d’Italia, prima dell’avvento della Repubblica per poi essere sostituita dall’Inno di Mameli); le due manifestazioni rituali a Roma e a Milano, ormai protagoniste di tafferugli tra gruppi filo-palestinesi e sindacati confederali; la visita dei massimi vertici dello Stato in alcuni dei luoghi simbolo della lotta antifascista; qualche film sul tema in TV; qualche documentario storico in orari relegati al pubblico di nicchia.

Si potrebbe e dovrebbe fare di più! Si dovrebbe ricordare che fu una guerra partigiana di popolo contro l’esercito invasore tedesco e contro altri italiani che avevano scelto di stare con i nazisti e perpetrare la dittatura fascista!

La colonna sonora di quel periodo “epico” fu la canzone “Bella ciao”, composta su motivi folklorici e popolari di un canto di lavoro delle mondine nelle risaie. Ma Bella ciao è bandita dalle manifestazioni ufficiali, all’altare della Patria, come in alcuni comuni del Nord, dove la Lega la fa da padrona, ed anche in TV non ha mai avuto la vita facile.

Eppure, in Francia e nel resto del mondo Bella ciao è un inno quasi ufficiale in difesa della patria, della libertà, di rivolta contro un nemico oppressore. Eppure, Bella ciao non contiene esortazioni verso scelte politiche o apologetiche della violenza. E allora perché, a 71 anni da quel 25 aprile, è ancora una canzone da censurare e da non affiancare a La leggenda del Piave, che comunque fu cantata dalle truppe italiane che andavano a morire contro gli austro-ungarici? Due colonne sonore che hanno contrassegnato epoche diverse, ma che hanno lo stesso diritto di essere conosciute e diffuse.

Se poi, dalla ritualità celebrativa, senza sentimenti, si passa alla ritualità di gesti extra-politici, allora si comprende come il 25 aprile sia divenuta per alcuni ambienti della cosiddetta “sinistra alternativa”, per i movimenti radicali e sociali, per quanti si sentono orfani di cortei “duri e puri”, un’occasione per stravolgerne l’essenza. Parliamo dell’assurdo e inconcepibile ostracismo che da qualche anno sta colpendo i pochi sopravvissuti e i loro affiliati della Brigata ebraica, osteggiati sempre da gruppi “filo-palestinesi”, che prendono a pretesto la loro presenza per accusare chi aveva lottato per la nostra libertà di essere “campioni del sionismo fascista e assassino, affamatori del popolo palestinese, ingiustamente oppresso da Israele”. Antisionismo militante per confondere in realtà un antisemitismo viscerale e pericoloso.

Anziché organizzarsi manifestazioni ad hoc, costoro non perdono quest’occasione di rilevanza nazionale, per mischiare artatamente problematiche legate al conflitto israelo-palestinese, con una storia limpida e coraggiosa di quanti, ebrei sopravvissuti alle leggi razziali, si organizzarono in una formazione partigiana per contribuire a liberare il nostro paese. Molti morirono in battaglia o nei campi di concentramento. Altri sopravvissero alle torture, come i reduci di Via Tasso a Roma. Chi cerca di mischiare le “carte della storia” dovrebbe ricordare che il Gran Muftì sunnita di Gerusalemme, la più alta autorità musulmana di allora, si schierò con Hitler nella sua paranoica guerra totale alle democrazie al popolo ebraico. Organizzò battaglioni di SS arabe e squadroni della morte per uccidere gli ebrei dei Kibbutz, scampati al Reich, e i palestinesi laici antinazisti.

Certo, il governo conservatore e oltranzista d’Israele attua una politica sbagliata nei confronti dei territori palestinesi, ma a Tel Aviv è in vigore una democrazia che non opprime le libertà fondamentali e tutela le diversità. Il diritto di voto e le libere elezioni sono una prassi. Nei territori governati dall’Autorità palestinese e da Hamas non si vota dal 2006 e sempre più ci si ispira alla sharia.

Chi prende a pretesto il 25 aprile per “regolare” unilateralmente stralunati conti con la storia, in realtà intende mandare in soffitta gli ideali della Resistenza e imbalsamare questo evento unificante in una data senza valore.


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