A dieci anni dalla morte di Federico Aldrovandi, è necessario risvegliare le coscienze

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La prima volta che sentii nominare Federico Aldrovandi fu nella primavera del 2006. Quando per la tesi di laurea specialistica in Editoria, Media e Giornalismo mi venne proposto di occuparmi di come un blog – in questo caso il blog di una madre a cui avevano ammazzato il figlio – fosse riuscito, per la prima volta in Italia, a dettare l’agenda ai media tradizionali, ancora non avevo ben capito la portata del caso di cronaca di cui mi sarei andata ad occupare.
Federico Aldrovandi muore il 25 settembre 2005, a Ferrara, in circostanze misteriose, durante un fermo di polizia.
Ha solo diciott’anni, sono quasi le sei del mattino, è domenica, e sta rincasando da Bologna, dove ha assistito a un concerto con alcuni amici. Quella che viene archiviata come “morte di un tossicodipendente”, per la presenza di un francobollo di lsd nelle tasche del giovane, in realtà nasconde una verità ben diversa: come è stato scritto nella sentenza, arrivata quattro anni dopo i fatti, Federico è morto per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi“. Paolo Forlani, Luca Pollastri, Enzo Pontani e Monica Segatto, i poliziotti che quel giorno fermano – e di fatto uccidono – Federico, vengono condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione, condanna confermata in Cassazione, ma la pena viene estinta per i primi tre anni, per effetto dell’indulto.
E’ l’autopsia, con la perizia tossicologica, la prima evidenza che smentisce la principale tesi della polizia, ovvero che Federico fosse sotto l’effetto di droghe, morto per overdose, come azzardarono i primi giornali locali all’indomani della sua morte. Le ferite ben visibili sul suo cadavere aprono i primi dubbi: Federico ha il volto sfigurato, coperto di sangue ed ecchimosi, due lesioni che gli attraversano la testa, lividi sul collo, il torace fracassato e i genitali schiacciati. E’ morto bloccato a terra, prono sull’asfalto, con le manette ai polsi, dopo che due manganelli si erano rotti a forza di colpi sul suo corpo.

Se oggi sappiamo che cos’è veramente accaduto quella mattina di dieci anni fa in via Ippodromo a Ferrara, lo si deve soprattutto al coraggio di una madre. Patrizia Moretti, con il marito Lino e il figlio minore Stefano, fin dal primo istante ha lottato contro tutto e tutti per far emergere la verità. E’ andata contro il “sistema”, ha scosso le istituzioni, non si è mai data per vinta, neppure quando sono piovuti su di lei critiche ed insulti. Quando chi doveva tutelarla non l’ascoltava, ha gridato il suo dolore ben oltre Ferrara e la Romagna, arrivando ad aprire un blog in cui raccontare la storia di suo figlio e chiedere per lui la verità. Ed è proprio grazie a internet che quello di Federico Aldrovandi diventa un caso nazionale, su cui si accende l’interesse della televisione, su cui viene fatta un’interrogazione parlamentare, su cui, da più parti, arrivano attestati di solidarietà.
Eppure la famiglia Aldrovandi ha dovuto ingoiare bocconi molto amari: la strada per arrivare alla verità è la più difficile, e che le ferite aperte da questo caso continuino a sanguinare lo dimostrano le uscite irriverenti di chi, anche nel mondo politico, pur di fronte alla realtà dei fatti, ritiene che questa battaglia mediatica sia stata combattuta più per una strumentale prevenzione nei confronti della polizia, che per amore per la verità.

Ecco perché quello che è stato organizzato a Ferrara nel decimo anniversario dalla morte di Aldrovandi è qualcosa di sacrosanto eppure eccezionale. Una due giorni, il 25 e il 26 settembre, chiamata “Musica, parole e immagini per Federico”.
Si comincia venerdì sera, alle 21, con un incontro organizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. Il suo presidente, Luigi Manconi, assieme alla mamma di Federico, Patrizia Moretti, alla presidente dell’Associazione Federico Aldrovandi e al segretario generale del sindacato di polizia, avvierà un dibattito dal titolo “Tra cittadino e Stato: la violenza è inevitabile?”.
Sabato mattina, invece, sarà il padre di Federico, Lino Aldrovandi, ad intervenire assieme ai rappresentati di associazioni e movimenti, impegnati in battaglie contro il reato di tortura.
Ma la grande festa di piazza, quella che probabilmente più sarebbe piaciuta a Federico, amante della musica e col sogno di formare una band con gli amici, è il grande concerto che comincerà alle 18, davanti al municipio di Ferrara, e al quale prenderanno parte numerose rock band del panorama italiano, e che vedrà la partecipazione speciale dell’attore Valerio Mastandrea.

Ancora la ricordo, al telefono, la voce di Patrizia Moretti: un’inflessione romagnola a mascherare, di tanto in tanto, alle domande più spinose, la prevedibile commozione di una madre, chiamata, ogni volta, a rivivere il dramma del figlio ucciso e infangato. Ma era proprio quando si scendeva nei dettagli, quando cercavo di farmi raccontare le sue future mosse, i suoi sospetti, i suoi presentimenti e le difficoltà reali di un’indagine a volte ostruita, che dall’altra parte della cornetta il tono cambiava, si faceva ancor più fiero, come di chi, ogni giorno, si sveglia con una ragione in più per lottare e non fermarsi, fino al raggiungimento della verità.
Ora mamma Patrizia quella verità l’ha agguantata, e con lei tutti noi, tutta l’Italia, il mondo intero. Ma quante volte ha dovuto scrollarsi di dosso gli insulti di gente bieca e ignorante, e rialzare la testa, rispondendo con dignità e composto dolore a chi ancora oggi non accetta che siano stati quattro poliziotti – tutt’ora in servizio – a uccidere Federico.
Quante volte ancora dovrà sollevare e mostrare a telecamere e fotografi la foto choc di Federico in una pozza di sangue sul tavolo dell’obitorio? Altre dieci, cento, mille volte se dovesse servire a non far dimenticare. Per questo, a dieci anni da quella maledetta domenica, è necessario risvegliare le coscienze e fermarsi per ricordare.


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