La strage al Palazzo di Giustizia di Milano, la politica della paura e le scomode verità del professor Barbagli

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Figuriamoci: è ancora, giustamente, doverosamente, vivo lo sconcerto per la strage a palazzo di Giustizia di Milano; è giusto interrogarsi come possa accadere che uno squilibrato entri impunemente in Tribunale, spara, uccide tre persone, ne ferisce altre tre; e riesce perfino a fuggire. Una vicenda che mette in luce come si possa parlare a giusto titolo di falle dei sistemi di sicurezza; è accaduto a Milano, poteva accadere in un qualunque altro palazzo di giustizia; e in passato in effetti è accaduto: andatevi a vedere un certo servizio del “TG2” andato in onda il 21 ottobre 2007; vedrete un giornalista che “tranquillamente” arma una rivoltella (giocattolo, ovviamente, comunque di metallo), se la infila neppure troppo nascostamente nella cintura, sale le scale del tribunale civile di Roma tra l’indifferenza generale, si aggira tranquillamente per le stanze, entra in quelle dei magistrati e negli archivi, può portare via, volendo, quintali di documenti e incartamenti, e nessuno che lo degni di uno sguardo… 21 ottobre 2007.

Perché quella “sceneggiata”? Perché qualche giorno prima, a Reggio Emilia, durante una causa di divorzio, un uomo aveva ucciso la moglie e il cognato, sparato all’avvocato della donna e ferito un poliziotto. Caso limite? Certamente. Ma resta il fatto che i palazzi di Giustizia (e non solo quelli) erano (e forse sono ancora) dei colabrodo; a Velletri il tribunale viene messo a ferro e a fuoco dai parenti e dagli amici di tre condannati per violenza sessuale; a Nocera Inferiore, tribunale senza metal detector, guardie all’ingresso, senza protezione insomma, un’udienza di sfratto si trasforma in un brutale pestaggio… Ha ragione Luigi Ferrarella quando, sul “Corriere della Sera” ci ricorda che si può dire tutto, ma è ipocrita mostrarsi sorpresi. Perché si sa, perché si sapeva come vanno le cose.

Quello che fa sorridere (amaramente beninteso), sono le “immediate misure” che si adottano dopo che i fatti accadono. Si può dire, senza offesa, che hanno il sapore della stalla chiusa quando la vacca è fuggita? E si può dire che sono misure di cartapesta, “mosse” per poter dire che si è fatta la “mossa”? Perché fa “mossa” mostrare dei soldati, dei ragazzi con tuta mimetica e un mitragliatore più grande di loro, collocati dinanzi a questo o quell’edificio cosiddetto “sensibile”. A parte che non sappiamo il loro livello di preparazione, che ci si augura sia adeguato, il fatto è che sono come certi posti di blocco: dove il carabiniere o il poliziotto è riconoscibilissimo al malintenzionato; mentre il carabiniere o il poliziotto non sa assolutamente chi siano gli occupanti della vettura che gli sta andando incontro. Così quei soldati: li si vede; loro invece non sanno chi sono le persone che transitano; sono in posizione di evidente svantaggio. Meglio forse sarebbe se a presidiare i luoghi sensibili ci fossero persone anonime, ben addestrate, in grado di intervenire con tempestività ed efficacia.

Ma addentriamoci su un terreno che è più propriamente il nostro: quello dell’informazione, di come si informa, di cosa di dice, e come.

Sfogliare i giornali, guardare i programmi di approfondimento e anche quelli di intrattenimento dove i vari ospiti confermano che la parola può essere spesso più veloce del pensiero. Quando le future generazioni per sapere qualcosa del nostro tempo, guarderanno queste trasmissioni come facciamo noi coi vecchi filmati dell’Istituto Luce, ne ricaveranno che viviamo un’epoca selvaggia, dove il pensiero principale è scannare il prossimo, dove di tutto si ha paura, dove a uscire di casa si corre ogni sorta di pericolo, ma anche starsene tappati tra quattro mura non ti salva…

Ora non è che si dice che si possono lasciare tranquillamente “le porte aperte”; non lo si poteva fare neppure quando le “porte aperte” erano un dogma… Però ancora una volta si alimenta un “clima” per convincerci che l’unica risposta possibile, “utile” è quella securitaria e autoritaria; e questo sì, è un problema che ci si deve porre; e va anche posto il problema ulteriore: perché questo problema non ce lo poniamo. Perché “improvvisamente” si stabilisce (e chi lo stabilisce, e perché) che sono “notiziabili” personaggi inconsistenti come un Matteo Salvini: presente in ogni trasmissione (e in ognuna una felpa con lo slogan mille usi), e alle sue belluine, truci, parole d’ordine si dia tanto spazio e visibilità. Non è che si evoca un “Grande Vecchio”, un “Grande Fratello”, ma certamente ci sono tanti mediocri di mezza età, tanti piccoli apprendisti stregoni, a cui fa gioco alimentare e accreditare un clima di tensione, di persistente, di costante pericolo. Bisognerà pur chiedersi perché nessuno si scomoda e va ad ascoltare il professor Marzio Barbagli, considerato tra i massimi studiosi di criminalità in Italia, docente di scienze statistiche all’università di Bologna. Cosa dice il professor Barbagli? Per esempio che al contrario di quanto appare o si vuole fa apparire, il numero degli omicidi in Italia non è mai stato così basso. Proprio così: mai così basso. Barbagli poi aggiunge: “Sento molte castronerie sul ruolo della crisi economica o del malessere sociale. M se così fosse, negli ultimi anni avremmo dovuto registrare una crescita di omicidi. Invece è l’opposto. Mi rendo conto che le buone notizie fanno poco scalpore”.

   Badate: Barbagli non è un cosiddetto “buonista”; è uno che senza essere reazionario o “fascista” propugna rispetto della legge e la sua applicazione; per intendersi, il “chi sbaglia paghi”.

   Dunque? Viene in mente un corposo saggio del professor Jonathan Simon, docente presso la californiana università di Berkeley. E’ del 2007, quel saggio, si intitola “Il governo della paura”. Simon sostiene (con parecchi dati di fatto) che verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso la maggioranza democratica che aveva sostenuto il modello del New Deal, si rende conto del crollo della fiducia nelle politiche di governo basate sulla competenza tecnica; cosicché cerca nuove forme di governance. La “guerra alla criminalità” rappresenta così una facile soluzione al problema, anzitutto perché permette di ridefinire i programmi politici nei termini di una prospettiva securitaria. In questo scenario, l’identificazione della vittima di azioni criminali con il cittadino comune, per sua natura inerme e vulnerabile, apre la strada a un intervento sempre più ingombrante e punitivo da parte dello Stato. Ora non c’è dubbio che l’affermazione secondo la quale “l’élite americana governa attraverso la criminalità”, è polemica, probabilmente eccessiva; ma quello che sostiene fa comunque intravedere un’intuizione relativa ad aspetti fondamentali del rapporto tra diritto e società, che non va presa sottogamba. La “politica della paura” è un qualcosa di presente, operante e praticato, fin dai tempi di Franklyn D.Roosevelt, fino ai giorni nostri. Gli americani ci hanno anticipato. In Italia e in Europa ci stiamo dimostrando degni allievi del maestro.


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