Germania: la solidità di una nazionale e di un paese

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Ha vinto la Germania: ci sta, per tutto il torneo si è dimostrata la squadra nettamente più solida e compatta e senz’altro, alla fine, ha meritato di piegare le resistenze di un’Argentina che pure, guidata dalla classe di Messi, non ha giocato affatto una brutta partita, contrapponendo alla maggiore organizzazione degli avversari i lampi di genio delle proprie individualità e l’abilità di un portiere, Romero, che ha dimostrato di non aver nulla da invidiare al più celebre collega Neuer, giustamente insignito del riconoscimento di miglior portiere di questi Mondiali.

Ha vinto la squadra di Joachim Löw, onore al merito, ma sarebbe riduttivo limitarsi alle semplici considerazioni sportive perché, in realtà, insieme ai campioni della Nazionale ha vinto un intero Paese che ha avuto la forza di risollevarsi dal baratro delle sue divisioni e di trasformare le barriere di un tempo in ponti e luoghi di accoglienza e di riscoprire i valori dello sport e porli al centro di un progetto di lunga durata.
Sì, perché la Germania non ha vinto ieri sera battendo in finale l’Argentina: ha cominciato a vincere nel 2000 quando, in seguito a un Europeo disastroso, ha deciso di puntare sui giovani e sui vivai, di dar loro fiducia e di coinvolgere in questo progetto anche quegli immigrati di seconda generazione che non hanno mai visto Berlino divisa dal Muro e hanno conosciuto le due Germanie solo grazie allo studio scolastico e ai racconti familiari.

Ha vinto una Germania che ha avuto il coraggio di lasciarsi definitivamente alle spalle la tragedia del 1974 quando ad Amburgo, nel corso dei Mondiali organizzati e vinti dalla Germania Ovest, la fortissima nazionale di Beckenbauer venne sconfitta per 1 a 0 dai cugini dell’Est nell’ultima partita valida per il girone eliminatorio. Il risultato non compromise di certo il cammino degli uomini di Schön ma è innegabile che per i tedeschi, tanto dell’est quanto dell’ovest, sia stato un trauma vedere ragazzi che si somigliavano fisicamente e parlavano la stessa lingua contrapposti per ragioni totalmente estranee al calcio.

La Germania che ha trionfato ieri sera a Rio de Janeiro è composta, per lo più, dai figli e dai nipoti dei ragazzi di allora ma anche da campioni come Özil, Khedira, Mustafi, Boateng, Podolski: tutti figli di una Nazione oramai globale e multietnica, di un’idea di Europa come una grande frontiera delle opportunità, di un mondo che ha sostituito i muri con l’Erasmus e le ostilità di un tempo con l’integrazione e la condivisione di ideali comuni.
Questa è la Germania che un ragazzo di ventidue anni, Mario Götze, ha condotto sul tetto del mondo: un gruppo che andava, per lo più, ancora alle elementari durante quell’Europeo che vide i tedeschi uscire mestamente al primo turno e che è stato, dunque, parte attiva del processo di ricostruzione e innovazione che li ha portati a conquistare quattro semifinali mondiali consecutive e a vincere quest’anno, a coronamento di un ciclo straordinario assai lontano dall’essersi esaurito.

Sbaglia, pertanto, chi, con una punta di cinismo, vede dietro quest’affermazione della Nazionale una vittoria personale di Angela Merkel. Certo, per la Cancelliera, presente al “Maracanã” con indosso una giacca rossa ispirata agli inserti presenti sulle maglie dei giocatori, questa vetrina rappresenta un toccasana e un’iniezione di fiducia nonché un’occasione irripetibile per accrescere una popolarità già molto elevata, come è emerso dalle elezioni dello scorso anno, ma sarebbe riduttivo trasformare un successo dalle basi così solide e lontane nel tempo nell’ennesima vittoria politica di una donna che, oggettivamente, domina incontrastata la scena europea da quasi dieci anni.

No, non ha vinto la Merkel: ha vinto anche la Merkel ma, soprattutto, si sono affermati i valori di un popolo tenace e lungimirante, con lo sguardo sempre rivolto al futuro e una classe politica determinata a trasformare in fatti concreti le richieste e le aspirazioni della gente. E ha vinto un movimento sportivo che non si è arreso di fronte alla bruciante sconfitta casalinga del 2006 contro l’Italia né davanti ai due terzi posti conquistati ai Mondiali del 2010 e agli Europei del 2012: sapendo di essere sulla strada giusta, sono andati avanti, senza cacciare l’allenatore, senza scomporsi per qualche fisiologica battuta d’arresto, senza mettere sotto processo i calciatori che avevano formato e continuando a costruire, passo dopo passo, un progetto ambizioso e ricco di qualità.

Questa è la Germania che ha alzato la coppa al cielo e questa è anche la nostra idea di Europa: un continente accogliente e inclusivo che sappia trasformare le sue diversità in risorse per mettere in comune il proprio destino, costruendo un’idea di comunità in grado di riscattare la globalizzazione della finanza e delle merci e di promuovere una globalizzazione delle idee e delle persone, con l’uomo al centro del processo di sviluppo e lo sport inteso come luogo-simbolo della fratellanza fra i popoli e le culture differenti.
A tal proposito, ci auguriamo che questa Germania moderna, multietnica e vincente capisca che ciò che vale nel calcio vale anche in politica e negli altri ambiti della società e della vita e che, mai come ora, si trova di fronte a un bivio: andare avanti per la propria strada e lasciare indietro tutti gli altri oppure porsi come nazione-guida di un progetto di crescita e integrazione continentale che non lasci indietro nessuno e si ponga l’obiettivo di portare a termine, entro questa legislatura, il percorso di un’Unione politica stabile e autorevole.

Terminati i dovuti festeggiamenti, attendiamo delle risposte in merito; e qui sì che la Merkel torna ad essere protagonista, dovendo scegliere fra una vittoria solitaria ed effimera e un successo collettivo più lento da conseguire ma senz’altro duraturo nel tempo.


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