Faceva foto, scriveva sul blog. Aveva grandi intuiti da cronista. Enzo Baldoni

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Qualcosa in comune sicuramente c’era. Altrimenti non ci saremmo ritrovati insieme davanti al buco di quella granata, nel giardino del “Palestine”, quella notte. Ma non ci siamo piaciuti subito. Intanto perche’ quella che ci aveva tanto spaventato io la chiamavo bomba e lui rosa scarlatta. Enzo Baldoni non era normale. Cercai di capire chi era, perchè stava lì. “Sono un viaggiatore pigro e un ficcanaso, oppure un fesso che scrive, fai te”. Pigro? Faceva foto, sempre, dappertutto. Aveva una certa genialità nel rivoltare la frittata: “E’ la quinta volta che vieni in Iraq, ma chi te lo fa fare?”. Inutile spiegargli che è il mio mestiere. Scoprimmo almeno di avere una cosa in comune, anzi due: la voglia di capire e i blog. Io cominciai a leggere il suo e scoprii che aveva grandi intuiti da cronista. Lui scoprì, leggendo il mio, che “anche i giornalisti hanno un’anima”. Il giorno che lasciò l’albergo per trasferirsi nella casa di Ghareeb (non l’avesse mai fatto) mi lanciò un messaggio di amicizia. Ci parlammo molto in quei giorni senza vederci. Per telefono (malissimo) e per e-mail. Discussioni feroci. Mi accusava di aver rinunciato al primo viaggio a Najaf per paura. Io a spiegargli, ma forse allora non lo convinsi. Perché le nostre differenze vennero fuori tutte: non quelle personali, ma quelle più concrete legate a ciò che facevamo. Discutemmo di libertà e di gabbiani. Discussioni feroci. Facemmo pace quando al ritorno lo andai ad intervistare in ospedale. Inguaribile. Litigammo ancora, più seriamente per il secondo viaggio. Alle due di notte, per un’ora, e dovevamo svegliarci alle cinque. Quelli che a lui piacevano, non piacevano a me. Lui si fidava ciecamente di tutti, invece io lo invitavo alla prudenza. Discutere serve. Quando la mattina c’incontrammo ci fu un abbraccio. In silenzio. Cioè senza parole: le avevamo spese tutte in una notte di Baghdad, forse non casualmente così piena di botti. Quando, qualche chilometro dopo, il botto lo sentimmo sotto di noi non ebbe più il coraggio di chiamarla rosa scarlatta. Io ebbi, lo ammetto, qualche dubbio nel proseguire. Quel viaggio non mi piaceva. Ma andammo avanti. Insieme. Quando poi arrivammo tra cecchini e carri armati in quella stradina di Najaf , mentre faticavo a parlare al microfono per i botti che rimbombavano, Enzo mi scattò un sacco di foto e sorrise: “Ma lo sai che fai proprio un mestiere di merda?”. Era la consacrazione di un’amicizia. Del resto, so per esperienza che i rapporti fra noi “zingari” si saldano alla prima avventura in comune. Purtroppo è stata anche l’ultima.


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