Niente stampa nell’aula del processo contro il senatore D’Alì

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Oggi è la giornata mondiale della libertà di stampa. Ma accade che mentre si celebra viene impedito di raccontare l’ultimo dei processi più importanti che è in corso in Sicilia ad un politico, l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì, Forza Italia nel 1994, anno della sua prima elezione, Pdl oggi, rieletto alle ultime elezioni nazionali. Silenzio, solo silenzi. Oggi è un giorno in cui nonostante tutto deve essere più forte sentire il dovere di fare memoria di chi non c’è più, è stato ucciso, per rispettare il “dovere” ma anche per la “bellezza” che c’è nel raccontare. In Sicilia il giornalismo conta tante vittime, Cristina, Spampinato, Alfano, Rostagno, Impastato, De Mauro, Francese, Fava. Il processo contro il senatore D’alì, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, non è poca roba e non è importante perché l’imputato è eccellente.

E’ importante perché racconta una buona parte di quella Trapani dove si sono intrecciati mafia e massoneria, qui i servizi segreti hanno conosciuto probabilmente la fase più acuta delle deviazioni interne, è la città del generale Vito Miceli il più famoso dei capi dei servizi segreti italiani e guarda caso la città dove Gladio per anni ha tenuto attivo in modo segreto, anche ai suoi stessi appartenenti un suo centro, Skorpio, qui la mafia è stata “service” per delitti e stragi,come la strage di Alcamo marina degli anni 70, oggi forse troppo in fretta liquidata dalla cronaca fermatasi a raccontare solo delle condanne annullate, terra insanguinata dal delitto di un giudice finito isolato non a caso, dall’eccidio di Pizzolungo del 2 aprile 1985, questa è la città dove un agente di polizia penitenziario è stato ucciso perché la sua morte rappresentasse il regalo di Natale dei boss liberi a quelli detenuti al 41 bis e un giudice in pensione è stato ammazzato per avere firmato un sequestro di beni nel giorno in cui diventava confisca definitiva, i nomi sono quelli di Apuzzo, Falcetta, Ciaccio Montalto, Barbara Rizzo con i figli Salvatore e Giuseppe Asta, Montalto, Giacomelli.

Trapani è la città dove davanti ai morti ammazzati un sindaco, Erasmo Garuccio, Dc, diceva che la mafia non esisteva, e 20 anni dopo un altro sindaco, Girolamo Fazio, Forza Italia, è venuto a dirci che la mafia esiste perché c’è l’antimafia o ancora il sindaco attuale, Vito Damiano, Pdl ex generale dei carabinieri, ha detto che non è bello parlare di mafia a scuola perché i ragazzi si possono impressionare. Trapani è il territorio dove il presidente della Provincia, Mimmo Turano, Udc, faceva le gite in aereo fino in Tunisia con il re dell’eolico, Vito Nicastri, socio di Messina Denaro, dove un sindaco, Ciro Caravà, Pd, di mattina inaugurava i beni confiscati alla mafia e nel pomeriggio telefonava ai parenti dei boss e chiedeva scusa, dove un altro sindaco, Camillo Iovino, Pdl, condannato per favoreggiamento ad un imprenditore mafioso e condannato a pagare 20 mila euro di danni causati per questo al suo Comune resta incredibilmente in sella e in questi giorni di campagna elettorale ha fatto invadere il suo territorio di manifesti per esaltare i 1800 giorni di buon governo da lui assicurati. Trapani è tutto questo e molto altro.

La provincia di Trapani è il luogo dove un senatore, Nino Papania, Pd, avrebbe trattato con una impresa vicina a Marcello Dell’Utri per ottenere assunzioni, impresa che dovendo anche contraccambiare i consensi del politico avrebbe esaurito il suo desiderio ad avere regalate penne con il diamantino, e intanto i costi della raccolta dei rifiuti lievitavano, a danno dei cittadini, senza che nessuno protestasse. E’ il territorio dove, come ha spesso ricordato un magistrato, il pm Andrea Tarondo, le imprese non pagano il pizzo ma la quota associativa a Cosa nostra, è la provincia dove ha sempre regnato la mafia borghese, dei grandi proprietari terreni, i mafiosi si sono ritrovati nei salotti eleganti delle città trapanesi, non hanno avuto bisogno di fare molti sforzi per inquinare politica, economia e società. Qui la mafia ha costruito attorno a queste città muri di gomma, che resistono così tanto da fare impallidire altri muri di gomma che pure ci sono nella Penisola, alzati dinanzi a gravi, gravissimi fatti. Da Trapani e dal trapanese niente di sgradito deve superare queste invisibili mura. Chi ci prova è un untore. E così accade che processi importanti non vengono bene raccontati. O non lo devono essere affatto. Dopo oltre 20 anni dal delitto si sta celebrando in Corte di Assise a Trapani il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno.

In uno scenario fatto in una città che è incredibilmente lontana da quell’aula. Dove raccontare il processo come deve farlo un giornalista, offrendo al lettore i fatti e la valutazione critica, può provocare l’irata reazione dei legali che pretenderebbero chissà quali sanzioni dai giudici. Mariano Agate, il potente boss di Mazara appena morto, nei giorni del delitto Rostagno, 26 o settembre 1988, l’aveva mandato a dire che Rostagno era stato ucciso “per questioni di corna” e in aula dinanzi alle imputazioni contro i due presunti colpevoli, Vincenzo Virga, e Vito Mazzara, conclamati capi mafia, è sulla storia delle corna che spesso si sente dibattere, da parte delle difese, per tirare fuori Cosa nostra dal processo. Come nel processo contro il senatore D’Alì , in questo processo è raccontata la storia della mafia che vive dentro la massoneria o anche l’inverso, ci sono le storie della malapolitica, i crocevia che Rostagno aveva individuato e voleva meglio raccontare, e per questo era diventato per la mafia “una camurria” da togliere di mezzo. Ecco questa è una piccola sintesi di quello che accade dalle parti di Trapani, difficile trovare tutto ciò sulle grandi cronache nazionali, tranne rare eccezioni che hanno nome e cognomi precisi, Fabrizio Feo, inviato del Tg3 o ancora Giorgio Santelli e Mario Forenza di Rainews24. Questo è il territorio dove regna il governo delle finanze della mafia e non da oggi. Da quando negli anni ’80 con mille miliardi di vecchie lire i mafiosi avevano deciso di comprare l’isolotto di Manuel a Malta. Qui non c’è sequestro o confisca che sfugga a quella che è diventata un regola e non una regola tanto per dire, cioè quello di indicare un filo che dalle casseforti tolti al controllo di imprenditori mafiosi o “vicini” alla mafia, conduce sempre al super boss Matteo Messina Denaro. A Trapani è sotto processo il potente senatore berlusconiano Tonino D’Alì, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Se si parla di casseforti è anche a lui che bisogna andare a guardare, è stato uno dei più ricchi banchieri, il suo nome è legato alla Banca Sicula, la banca che aveva come preposto Salvatore Messina Denaro, figlio e fratello di mafiosi, e mafioso lui stesso, presidente del collegio sindacale fu Giuseppe Provenzano che finì indagato da Falcone e poi, puntualmente, eletto presidente della Regione per Forza Italia, attorno a D’Alì e alla Banca Sicula si muove l’accusa di riciclaggio contestata dai pm Tarondo e Guido. In un recente sequestro di beni è calata una intercettazione dove un imprenditore parla di un appalto che si aggiudicherà grazie al senatore D’Alì, e ne parla quando il bando di gara non era stato nemmeno pubblicato. Ieri a Roma nonostante il processo il presidente del Senato Pietro Grasso ha nominato D’Alì, su indicazione del gruppo Pdl di Palazzo Madama, rappresentante dell’Italia in un organismo europeo. Oggi a Palermo è cominciata la requisitoria per questo processo. Il senatore D’Alì ha chiesto e ottenuto il rito abbreviato. Una bella contraddizione. Poi non dobbiamo scandalizzarci dinanzi a quei giovani che oggi si dicono increduli sulla capacità di infiltrazione del fenomeno mafioso, se vedono gli imputati girare per le aule parlamentari italiane ed europee.

Oggi sarebbe stato interessante ascoltare la requisitoria dei pm così come sarebbe interessante ascoltare le difese e forse lo stesso senatore che si appresterebbe a rendere dichiarazioni spontanee. Ma la stampa che aveva chiesto di essere presente ha ricevuto un no secco, nel giorno proprio della libertà di stampa. Ecco la questione di fondo non è fare il giornalismo investigativo ma intanto il potere raccontare. E quando accade questo la verità finisce con l’avere tante facce, e il lettore alla fine si stanca e ti abbandona. Ed i potenti hanno vinto. Almeno pensano di averla avuta vinta.

 


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