Dieci anni di crisi, un giorno di visibilità per il Darfur. Non spegniamo i riflettori sulle crisi dimenticate

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Per un giorno, grazie all’impegno di Italians for Darfur e al supporto di Articolo 21 e GiUlia, la rete delle Giornaliste unite libere autonome, i riflettori si sono accesi sulla più grave crisi umanitaria che da oltre dieci anni langue nel dimenticatoio mediatico. La presentazione del Rapporto nel decennale dell’inizio del conflitto in Darfur, in contemporanea con l’anteprima del video della campagna ‘Darfur10’, ha suscitato l’interesse di qualche telegiornale e molti media online. E questo è un successo. Ma come al solito le principali edizioni dei tg si sono rivelate off-limits.

Ciò spinge tutti noi a rilanciare l’appello alla Rai, alla presidente Tarantola e a tutta la dirigenza, affinché il servizio pubblico dia maggiore spazio ai diritti umani e alle crisi dimenticate. Crisi come quella del Darfur, regione sudanese segnata e insanguinata da dieci anni di conflitto, dieci anni che hanno lasciato sul campo 300mila morti e oltre due milioni di sfollati. E il 2013 sarà un anno che vedrà impegnate in prima linea organizzazioni e star internazionali per squarciare il silenzio che vergognosamente persiste su ciò che avviene in Sudan. Sia aberranti, come le  violazioni contro le persone, una per tutte lo stupro usato come arma di guerra contro le donne. Ma anche notizie positive, come i voli della speranza promossi dalla nostra associazione in partnership con l’Unamid, la missione Onu – Unione Africana, che hanno portato a Khartoum bambini gravemente malati, strappati a un destino di sofferenza e morte nelle aree dove l’assistenza sanitaria è praticamente inesistente.

La situazione, in Darfur come in altre realtà del Sudan, è drasticamente peggiorata dal punto di vista umanitario e sotto l’aspetto della sicurezza è ancora molto instabile.

Eppure solo pochi mesi fa pensavamo che l’accordo di pace firmato a Doha potesse finalmente porre finire alla lunga guerra in Darfur. Invece, a pochi mesi da quell’accordo, le violenze sono riprese più cruente che mai.
Nella sola settimana in cui eravamo in Sudan un gruppo armato di miliziani ha fatto irruzione in un villaggio al nord di al Fasher e ha massacrato 13 persone, in un attacco a un convoglio diplomatico sulla strada da Kebkabiya a Nyala, capitale del Sud Darfur, sono rimasti uccisi un esponente politico locale e un funzionario Onu. Infine, a causa del ritardo della fornitura dei vaccini, bloccati a Khartoum per motivi di sicurezza subito dopo la ripresa degli scontri, è scoppiata un’epidemia di febbre gialla che ha causato la morte di 107 infettati in sei settimane.
E pensare che eravamo stati partecipi e testimoni di un progetto che aveva ridato una vita normale a tanti profughi del Darfur. Gli orti realizzati dai profughi, ai quali avevamo insegnato a coltivare vegetali e altri prodotti agricoli per uso familiare, avevano acceso una flebile speranza in coloro che erano tornati in quest’angolo pacificato della regione a nord di al Fasher.

Qualcosa sembrava stesse  cambiando. Quattrocentomila sfollati avevano lasciato i campi profughi, che li avevano accolti dopo la fuga dagli scontri e dai bombardamenti, per far rientro nei villaggi di origine.

Le notizie dei nuovi scontri, di cui raccontiamo nel Rapporto 2013, hanno spazzato via quella speranza, quell’illusione di ‘normalità’ e vanificano gli sforzi di quanti lavorano per trovare una soluzione a questa crisi umanitaria ormai incancrenita.  Ne abbiamo avuto conferma sul campo. E lo abbiamo documentato.
Le condizioni di vita degli sfollati assistiti nei campi profughi sono notevolmente peggiorate. Se Khartoum e le Nazioni Unite non riusciranno a colmare al più presto le lacune assistenziali che sia al Nord, sia al Sud rendono indegne le condizioni di vita di 1 milione e 800, la situazione non potrà che deteriorarsi ulteriormente.
Ed è questa incertezza che spinge tanti esuli a pensare di tornare nei propri villaggi. Piuttosto che sopravvivere indegnamente preferiscono rischiare, ricominciare ancora una volta, a casa propria. Non importa se non ci sono strade, ospedali, scuole.
La speranza è chela Conferenza dei donatori per il Darfur, prevista il prossimo aprile a Doha, possa garantire a chi continua a vivere in emergenza un futuro migliore.


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