Gli insulti ai figli oscurano la notizia su Paolo Borsellino

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Gli operatori della comunicazione sarebbero tenuti ad un mea culpa collettivo. Alle numerose motivazioni preesistenti, ne aggiungiamo una fresca di settimana. Perché ci siamo cascati tutti o forse perché alla fine l’informazione funziona così nel nostro Paese: capita allora che la notizia più importante degli ultimi mesi in tema di lotta alla mafia venga subito coperta dalle polemiche – sacrosante, ci mancherebbe! – suscitate da alcune intercettazioni, più utili per fare gossip e vendere copie e fare audience.

La notizia, quella vera, quella che avrebbe dovuto innescare fiumi di inchiostro e minuti di servizi per i tg, è stata data da Manfredi e Lucia Borsellino, ma è rimasta sotto i riflettori soltanto per un giorno. I due figli del magistrato palermitano al processo “Borsellino quater”, in corso di svolgimento a Caltanissetta, hanno dichiarato che il padre fu ucciso nella strage di via Mariano D’Amelio, soltanto ventiquattro ore prima dell’appuntamento con i colleghi nisseni, ai quali avrebbe voluto raccontare quello che sapeva e aveva capito dell’omicidio del collega e amico fraterno Giovanni Falcone, avvenuto poche settimane prima a Capaci, lungo l’autostrada che collega l’aeroporto con la città.

Era stata fissata in agenda, infatti, proprio per il 20 luglio la deposizione davanti all’autorità giudiziaria di Caltanissetta. Una deposizione che era sicuramente destinata a gettare nuova luce sui fatti tragici della strage mafiosa del 23 maggio. Una deposizione che lo stesso Borsellino aveva in qualche modo anticipato durante un’affollatissima manifestazione pubblica, promossa il 25 giugno 1992 dalla rivista Micromega nell’atrio della biblioteca comunale. Nel corso di quel commosso e polemico intervento, Borsellino denunciò gli ostacoli al lavoro di Giovanni Falcone, dalle ripicche più futili alle invidie dei colleghi. È questo lo stesso discorso nel quale Borsellino ricordò che “Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988” quando il CSM gli preferì Antonino Meli per la guida dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

Le parole di Paolo Borsellino furono fin troppo chiare quella sera: «In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone».

Che Borsellino dovesse deporre in Procura a Caltanissetta è stato un fatto di cui ci si è scordati per anni e che ogni tanto è riemerso come un torrente carsico. È stata vissuta come una dimenticanza comoda da tanti, da troppi esponenti delle istituzioni e della politica. E così anche gli italiani hanno dimenticato, come spesso accade in queste situazioni. Ora sono stati Manfredi e Lucia Borsellino a rievocare la circostanza.

E ci sarebbe innanzitutto da chiedersi come mai siano passati così tanti anni senza che nessuna autorità giudiziaria o ricostruzione parlamentare da parte della Commissione Antimafia sia stata in grado di spiegarci come mai dovettero passare quasi due mesi da Capaci prima che Borsellino, amico fraterno e collega fidato di Falcone, testimone privilegiato dei fatti avvenuti fino a quel momento drammatico, venisse chiamato a raccontare la sua verità davanti all’autorità giudiziaria competente. Lo stesso Manfredi Borsellino ha ricordato che suo padre non si capacitava della mancata convocazione in tempi utili. Ora sappiamo che comunque, seppure in ritardo, l’appuntamento era fissato. Per lunedì 20 luglio 1992. Prima dei magistrati nisseni, arrivarono però i macellai di Cosa Nostra: ammesso che furono soltanto loro ad agire in via D’Amelio, il che oggi a distanza di ventitré anni diventa sempre meno certo.

Ecco di tutto questo, per avere approfondimenti e dibattito in grado di coinvolgere doverosamente la pubblica opinione, ci sarebbe piaciuto leggere e discutere.

Invece, in meno di ventiquattrore, è partito il circo mediatico del gossip che ci ha trascinato vorticosamente nel fango delle intercettazioni disposte a carico dell’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, oggi sotto inchiesta per la gestione scriteriata dei beni sequestrati e confiscati nel distretto palermitano.

In alcuni degli scambi telefonici controllati dalla Guardia di Finanza proprio al termine di una manifestazione dell’anniversario di via D’Amelio, la Saguto viene sorpresa apostrofare i figli di Borsellino con un turpiloquio degno di una taverna mal frequentata: Manfredi viene definito “uno squilibrato”, mentre Lucia “una cretina precisa”. E ancora vengono riportati in bella evidenza sui quotidiani e in tv altri commenti davvero pesanti sulla commozione manifestata dal figlio di Paolo Borsellino durante la ricorrenza: «Poi, Manfredi Borsellino, che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai». E nel caso ci fosse qualche dubbio ancora sul suo pensiero il giudici Saguto aggiunge anche: «Ma che… dov’è uno… le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo».

Ecco su queste dichiarazioni, deprecabili di per sé senza bisogno di aggiungere troppo, si sono riversati quei fiumi d’inchiostro e quei minuti di girato che ci saremmo dovuti attendere per la vera notizia.

Già perché i commenti della Saguto non sono una notizia, o per lo meno, non nel senso che diamo alla parola “notizia”: un fatto che abbia una qualche utilità per la pubblica opinione.

Perché quello che pensa dei figli di Borsellino un magistrato come lei, oggi sotto inchiesta per come ha gestito la cruciale partita dei beni tolti alle cosche a Palermo e dintorni, non aggiunge nulla alla lotta alla mafia. Non sposta di una virgola in avanti il contrasto alle mafie. Purtroppo ci dice molto dello spessore morale della persona in questione, seppure innocente fino a prova contraria per quanto le viene contestato oggi. Purtroppo toglie prestigio e consenso alla categoria dei magistrati, che tanto lustro hanno avuto dal sacrificio di Borsellino e Falcone. Al netto di quello che verrà o non verrà provato nei suoi confronti, al netto delle smentite/conferme che hanno riempito le pagine dei quotidiani, ci sembra che Silvana Saguto sia destinata ad essere ricordata insieme a Corrado Carnevale, l’ammazzasentenze della Corte di Cassazione che chiamava Falcone e Borsellino in modo sprezzante “dioscuri” e li apostrofava come “cretini”.

Nulla di nuovo purtroppo sotto il sole.

Avrebbe più senso per la lotta alla mafia, invece, concentrarsi sulla notizia che Paolo Borsellino venne ucciso proprio il giorno prima della sua prevista deposizione a Caltanissetta. Fu soltanto una clamorosa coincidenza? Un colpo di fortuna inaspettato per le cosche? O forse non è la prova che nella morte del giudice e della sua scorta le responsabilità vanno cercate anche al di fuori della mafia?


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