Lamezia Terme, notizie false e la macchina dell’odio 

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La notizia esce la sera del dieci agosto. Poche righe su un giornale on line di Lamezia Terme che però si riproducono centinaia di volte in poco tempo. Il titolo dice: “tre uomini di colore aggrediscono e derubano un anziano”, i dettagli raccontano di uno stupro, la fonte sono “alcuni residenti”. Quelle poche righe vengono condivise sui social assieme a commenti arrabbiati che da subito pretendono vendetta. È un meccanismo inarrestabile. L’odio moltiplica se stesso in una forma ottusa e dilagante. Altri giornali on line riprendono la notizia negli stessi termini, qualcuno calca la mano, dice che l’anziano è stato seviziato “tant’è che è ricoverato e sottoposto ad intervento chirurgico”, aggiunge che “degli aggressori si sono perse le tracce” e che sono in corso indagini, ma che la polizia sta cercando di calmare gli abitanti del quartiere dove “l’agitazione è alle stelle”. Nell’arco di poche ore tutto prende una forma precisa e a promuovere la necessità di reagire, di scendere in piazza è il Movimento Territorio e Lavoro – noi con Salvini. Scrive su fb il consigliere comunale di Mtl Massimo Cristiano: “chi non rispetta la nostra gente deve andare via dalla nostra città”.

La macchina dell’odio si nutre di se stessa e non si ferma neanche quando arriva la smentita. La notizia è falsa, è la questura di Lamezia a dirlo con grande chiarezza. Al pronto soccorso accertano che non c’è stata nessuna aggressione contro l’anziano che era uscito di casa ed era rientrato senza i soldi che gli aveva dato la moglie. Gli inquirenti parlano esplicitamente di simulazione, insomma il vecchietto ha finto l’aggressione la rapina e lo stupro. Sarebbe un fatto privato se non avesse innescato una reazione capace facilmente di trasformarsi in una caccia al migrante, in un linciaggio.
Nel pomeriggio del giorno dopo, dell’11 agosto, in via dei bizantini si alza la saracinesca della sede di MTL – noi con Salvini. Hanno due consiglieri comunali e un assessore che ha la delega ai servizi sociali. Il loro logo è una versione moderna del logo di Terza Posizione con una runa celtica che attraversa la T (che all’epoca di terza posizione simboleggiava il martello usato dai suoi aderenti) e la loro sede è di fronte ad un palazzo confiscato al clan Torcasio in via dei bizantini. È una delle sedi della Comunità Progetto Sud che ha al secondo piano un centro per disabili e al primo piano un centro per minori stranieri non accompagnati. È con loro che se la prendono per l’aggressione che non c’è mai stata, che è stata smentita dalla questura in un comunicato diffuso da dodici ore che parla di simulazione, ma che non riesce a fermare “l’agitazione alle stelle” nel quartiere.
Dalla sede di Mtl esce uno striscione che dice “dovete stare nella savana”. Bloccano la strada con due auto messe di traverso. Volano insulti, minacce. Qualcuno grida vi facciamo saltare in aria. Dalla comunità si affacciano al balcone e vengono investiti da insulti. Sale un funzionario di polizia che chiede di non affacciarsi, di non accettare provocazioni, dice una parola che spaventa tutti “carneficina” se reagite “rischiamo una carneficina”.
Nicola lavora al centro. Arriva mentre la protesta è in atto. Si ferma a guardare dal marciapiede, ma nessuno lo riconosce. “Se fossero state persone del quartiere mi avrebbero riconosciuto, sanno tutti chi sono e che lavoro faccio da queste parti”. E allora chi sono quelle persone che urlano e da dove vengono? Se lo chiedono un po’ tutti mentre in strada arrivano rinforzi di polizia e guardia di finanza da Catanzaro. Ahmet guarda la strada senza affacciarsi e si chiede ad alta voce: ma è con queste persone che io dovrei integrarmi? Nicola lo rassicura, gli dice “questa non è Lamezia. Li abbiamo contati sono 78 persone che vengono da fuori, non è Lamezia”.
In mezzo alla piccola folla urlante ci sono due consiglieri comunali di maggioranza e anche due esponenti del clan. I Torcasio abitano oltre il cortile, dal lato opposto del palazzo confiscato. Si affacciano anche alcune donne del clan che intonano un coro sprezzante, cantano: “volete capire che ve ne dovete andare?”. Sono tutti rivolti al primo piano del palazzo, dal quale nessuno si può affacciare.
Qualche giorno dopo un funzionario di polizia torna in quel palazzo. Vuole parlare con i ragazzi, i minori. Vuole domandargli se vogliono sporgere denuncia e forse vuole anche portare un segno di solidarietà dopo tanto odio. Mi piace pensare che sia così.
Incontro don Giacomo sulla strada. Guarda i fori di proiettile sulla saracinesca e dice: “questo palazzo è stato confiscato alla mafia. Ci hanno sparato addosso. Hanno messo bombe sul portone che hanno fatto schizzare il marmo a decine di metri. Gli uomini del clan ci hanno insultati e minacciati. Ma l’altro giorno quelli li sono venuti a prendersela con dei ragazzini. Non ce l’avevano con la mafia, ce l’avevano con dei minorenni ospiti di un centro confiscato dallo stato alla mafia.”
Non è la prima volta. E non sarà l’ultima.
Maria Elena che lavora con i ragazzini del centro dice che stanno continuando. Continuano le intimidazioni, i ragazzi puntati dalle macchine lungo la strada. “È come se fosse tutto normale, come se, ormai, fosse un fatto accettato, una cosa che si può fare”. Dice che non importa se la notizia dell’aggressione è stata smentita “perché era solo una scusa, un futile motivo.”
La sera dell’11 agosto un giornale on line di Lamezia pubblica poche righe in cui dice: “Chiediamo scusa ai nostri lettori per la notizia che abbiamo diffuso. La notizia era falsa, per fortuna il fatto non è avvenuto.” Una notizia che nessuno ha condiviso.

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