25 novembre: la violenza sulle donne e la paura di un vero cambiamento

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Il 25 novembre è diventata una data che non passa più inosservata in Italia. Da quel lontano 1999, anno in cui le Nazioni Unite decisero per una giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sono passati molti anni di silenzio e omertà in cui i giornali parlavano di donne uccise nel mistero o sbattevano in prima pagina l’immigrato di turno dando la sensazione di un territorio invaso da barbari stupratori. E mentre i maschi italiani agivano del tutto inosservati a casa propria e in piena impunità, anche quando i dati dell’Istat nel 2007 ci facevano notare che l’85% della violenza era violenza domestica, si è continuato per molto tempo a stigmatizzare la violenza sulle donne come un fatto che non riguardava le “famiglie normali” e su cui lo Stato poteva tranquillamente agire puntando il dito sul rumeno di turno. Per parlare della violenza maschile sulle donne in un modo più aderente alla realtà, e in maniera più corretta, è stata necessaria una vera e propria sollevazione delle donne che trasversalmente hanno cominciato a interrogarsi e a dialogare con chi sulla violenza ci lavorava da sempre: quei centri antiviolenza nati in maniera indipendente 30 anni fa che conoscevano bene cosa era la violenza domestica sulle italiane. Uno sforzo, quello delle donne e della società civile, che ha avuto il merito di porre al centro dell’attenzione politica il fenomeno, sia nell’informazione che di fronte alle istituzioni, dando diversa dimensione al femminicidio e a tutte le forme di discriminazione sulle donne in questo Paese e nel mondo. Un lavoro capillare e prezioso senza il quale oggi, questa giornata, continuerebbe a essere una come le altre. Una campagna di sensibilizzazione permanente sulle donne che ormai parte da ottobre in vista del 25 novembre, allungando la data fino a dicembre, riprende a gennaio in vista del One Billion Rising (14 febbraio) e culmina nell’8 marzo (che non è più solo la triste mimosa) per proseguire su questa scia fino all’estate. Un salto di qualità per un Paese dove, secondo il rapporto del World Economic Forum, ci vogliono ancora 81 anni per raggiungere una certa equità tra uomini e donne (l’Italia è al 69° posto nel Gender Gap) e in cui la discriminazione delle donne – nel lavoro, a casa, in famiglia, nelle aziende e in tutti i luoghi pubblici e privati – è ancora molto forte e sostenuta da una cultura lontana dall’abbattere definitivamente quegli stereotipi che sono alla base stessa della violenza maschile sulle donne.

Ma una sensibilizzazione così massiccia, che in pochi anni ha cambiato molte carte in tavola, quali risultati ha avuto e quali sono state le risposte concrete da parte delle istituzioni?

In un recente report dal titolo “Rosa shocking. Violenza, stereotipi… e altre questioni del genere” di We World Intervita,presentato alla camera una settimana fa, si può leggere che se da una parte è certo un aumento notevole della sensibilizzazione sull’argomento violenza maschile sulle donne – triplicata in soli 5 anni (2009/2013) con un + 34% tra ‘12 e il ‘13 – dall’altra sono 65 i milioni di euro che le aziende spendono ogni mese per proporre a un enorme pubblico campagne pubblicitarie legate a un’immagine femminile oggettivizzata e stereotipata che va dalle donne decorative, a quelle manichino fino alle pre-orgasmiche: categorie che in ambito maschile vengono sostituite da professionisti di successo o sportivi. Cifre che fanno impallidire se paragonate a quello che le onlus in Italia hanno speso nel 2013 per valorizzare la figura femminile nel contrastare e prevenire la violenza sulle donne, malgrado sia aumentata passando da 6,3 milioni di euro a 16,1 milioni nel biennio 2012-2013. Stereotipi, quelli legati alla donna come oggetto da usare ora per pubblicizzare una marca di caffè ora da utilizzare come schiava in casa, che in Italia sono ancora fortemente radicati nel tessuto sociale e che culturalmente classificano la donna come un accessorio utilizzabile dall’uomo dalla A alla Zeta, e che nella percezione della violenza porta a una sostanziale sottovalutazione del fenomeno: tanto che, sempre secondo We World, non solo 1 Italiano su 5 non considera violenza la denigrazione di una donna ma è convinto che se le donne non indossassero abiti provocanti non subirebbero violenza. Per 1 italiano su 3, ancora oggi e dopo quell’incremento così considerevole di sensibilizzazione sul fenomeno, la violenza domestica dovrebbe prima di tutto essere risolta in famiglia: l’esatto contrario di quello che ci indica la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata da noi lo scorso anno e ora in vigore. In Italia, nonostante le norme per il contrasto alla violenza sulle donne varate nel 2013 e malgrado la ratifica della citata Convenzione di Istanbul, ogni 3 giorni una donna viene uccisa dal partner, dall’ex o da un familiare, e in un anno più di 1 milione di donne hanno subito violenza maschile con oltre 25 casi di stalking al giorno: casi che possono essere anche archiviati, malgrado sia ormai chiara la pericolosità dello stalker e il fattore di rischio (di vita) che la donna ha soprattutto quando cerca di sottrarsi alla violenza e non è adeguatamente protetta. Se ancora in alcuni tribunali italiani si stenta a riconoscere la violenza all’interno delle mura di casa scambiandola per semplice “conflittualità”, non solo rivittimizzando la donna che denuncia ma a volte anche colpevolizzandola e sottraendo alla stessa i figli in quanto “madre malevola” rea di manipolazioni sulla prole che ha assistito o subisce direttamente la violenza di un padre, non ci possiamo stupire se la percezione degli italiani sulla violenza è così minimizzante. Una violenza che sempre We World ha monetizzato, con un’indagine fatta lo scorso anno (“Quanto costa il silenzio”), con una spesa di 17 miliardi di euro annui a carico dalla collettività per gli effetti devastanti di un fenomeno che è strutturale e per questo difficile da contrastare. Un nodo, quello tra stereotipi e violenza, ben presente anche ad alcune rappresentanti istituzionali di un certo peso, come la presidente della camera, Laura Boldrini, e la vicepresidente del senato, Valeria Fedeli, che durante la presentazione del rapporto di We World hanno lanciato anche delle proposte e suggerito riflessioni. Se Boldrini ha fatto notare l’importanza del cambiamento culturale a tutti i livelli e come le stesse aziende, che qui promuovono le donne “grechine”, altrove lanciano altri tipi di campagne proprio perché non hanno gli stessi agganci culturali, Fedeli ha valutato come necessari a un vero contrasto alla violenza la rappresentanza istituzionale delle donne, il dialogo tra istituzioni e società civile, una strategia di un quadro nazionale per l’implementazione della Convenzione di Istanbul, l’importanza della trasformazione della cultura attraverso scuola e media, una “commissione bicamerale” che relazioni a scadenza annuale i lavori e l’efficacia delle azioni istituzionali per contrastare la violenza sulle donne, “un osservatorio di genere presso la presidenza del consiglio che valuti “ex ante” le politiche che si scelgono”, e infine una riflessione sulle stesse aziende italiane che possono scegliere di fare “campagne per una pubblicità sostenibile sul ruolo delle donne nella società”.

Ma allora che cosa è che non funziona?

Le italiane da parte delle istituzioni, oltre all’impegno costante di alcune rappresentanti, hanno avuto due risposte concrete sul tema della violenza: la prima è stata l’importante ratifica della Convenzione di Istanbul, la seconda le norme per il contrasto alla violenza sulle donne contenute nel pacchetto sicurezza poi diventata legge. Eppure se ancora oggi per un uomo su due – sempre secondo We World – il matrimonio viene considerato “il sogno di tutte le donne” e per quasi 7 uomini su 10 “è più facile per una donna fare dei sacrifici nella famiglia”, significa che quelle risposte o non sono efficaci, o non sono abbastanza, o c’è qualcosa che non va. Forse perché serve anche altro, come la vera e unica novità a livello istituzionale – poi messa nel cassetto – che fu l’iniziale e proficua interlocuzione con tutte le associazioni italiane fatta dalla ex ministra delle pari opportunità, Josefa Idem. Perché malgrado sia stata la ministra precedente, Mara Carfagna, a varare la legge sullo stalking, il primo piano antiviolenza nazionale in Italia (scaduto nel 2013) e il finanziamento per i centri antiviolenza, è stata la ministra Idem la prima a costituire una task force interministerale sulla violenza contro le donne, che avrebbe dovuto essere costantemente collegata ai tavoli delle ong, e a convocare tutte le associazioni italiane esistenti e operanti sul tema: un ponte che qui in Italia non si era mai fatto pubblicamente e con un impegno così esplicito.

Ma cosa rimane oggi di quel lavoro?

Un piano antiviolenza le cui linee principali dovrebbero essere illustrate oggi dall’onorevole Giovanna Martelli – consigliera delle pari opportunità del presidente del consiglio – all’Aranciera di San Sisto (via di Valle delle Camene 11 dalle ore 10) in occasione del lancio della campagna #cosedauomini e dal titolo “Vincere la partita più importante: quella contro la violenza sulle donne”, insieme alla ministra Boschi. Un piano che Martelli ha già dichiarato essere stato “costruito in modo partecipato, attraverso tavoli tematici” ma sul quale le stesse associazioni di donne che si sono sedute a quei tavoli hanno cominciato a contestare: a partire da DiRe (rete nazionale dei centri antiviolenza che oggi si riunisce a Roma – Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani – con il convegnoContrastare la violenza contro le donne, migliorare la qualità della vita”), che ha pubblicamente disconosciuto i lavori del piano i quali, secondo DiRe, disconoscerebbero “le specificità che caratterizzano il lavoro delle donne nei Centri antiviolenza e le competenze acquisite dalle operatrici dei centri”, prevedendo “la presenza di personale maschile”, dettando “criteri che schiacciano la connotazione politico-culturale dei centri antiviolenza”, e prevedendo finanziamenti che non solo non coprirebbero l’attività dei centri così come sono ma che sarebbero assolutamente insufficienti anche per applicare le linee decise dal Piano stesso. Una difficile eredità, quella ricevuta da Giovanna Martelli, che dalle mani di una ministra, Josefa Idem, è passata con una delega nelle mani della ex viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, e che ora è invece rimasta stretta nelle mani del nuovo premier Renzi che ha incaricato Martelli di seguire i lavori del Dpo per suo conto la quale, come ha suggerito Boldrini, deve svolgere questa attività da una posizione ben differente da quella di una ministra.

Ma perché il vuoto di una ministra come referente unico e con pieni poteri va così stretto a una società civile di donne che in pochi anni è riuscita a triplicare la sensibilizzazione sul femminicidio, portando il tema sull’agenda istituzionale e premendo sul tasto della discriminazione di genere?

Effettivamente l’input da cui era partita la ex ministra Idem, interloquendo preliminarmente con tutte le associazioni presenti sul territorio nazionale – nessuna esclusa – ha dato un imprinting che, se anche stroncato sul nascere, è rimasto indelebile come punto di svolta, e che solo un’altra ministra con il suo stesso potere e le sue stesse capacità potrebbe portare avanti fino a farne scaturire un quadro coerente ed efficace di risposta reale alla violenza contro le donne in questo Paese. Un’opinione, quella della necessità di una figura nel governo che sia un riferimento per le politiche di genere, condivisa anche da Boldrini e da Fedeli, su cui la stessa ex ministra Idem, intervenuta pochi giorni fa all’Adnkronos, ha dichiarato che “Bisogna ripristinare il ministero delle Pari opportunità e andare alla radice del male, concentrandosi sulla sua origine culturale. La legge sul femminicidio – ha spiegato – ha avuto sicuramente ricadute positive, incentivando le denunce e va valutata nel tempo, ma non basta. Quello che il governo sta facendo con l’istituzione di un consigliere ad hoc e l’azione del dipartimento per le Pari opportunità, non è sufficiente, perché manca un organismo di coordinamento dei centri sul territorio e soprattutto serve che ci sia qualcuno, al tavolo del Consiglio dei ministri, che ricordi la necessità di investire risorse. Se anche gli altri ministeri – ha detto Idem – vengono trattati allo stesso modo, sostituiti da strutture come queste perché si è dimostrato utile, allora mi piego a questa logica, ma se questo trattamento si riserva solo alle Pari opportunità, allora è chiaro che sta venendo meno l’attenzione su questo tema”.


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