Non sempre i libri raggiungono nel tempo debito il proprio lettore. Difficile che accada, soprattutto se l’opera diventa una specie di biografia dell’autore e condensa decenni di ricerche, passioni, ideali cercando nel contempo di mantenere una connotazione di bruciante attualità. Nel caso di questo libro, che Maurizio Viroli ha scritto rispondendo alle domande postegli da Roberto Bertoni, il risultato è invece conseguito con grande efficacia.
La forma dialogica consente di ripercorrere una vita di studi alla luce della contemporaneità offrendo un’opzione che, specie per i tratti anticonformisti che la segnano, può costituire una guida preziosa nei dibattiti auspicabilmente promossi all’interno della società civile, delle scuole e delle università. Siamo cioè di fronte a uno strumento utile per esercitare il pensiero e per rivitalizzare la residua speranza nella libertà che i tempi consentono.
Talvolta i repentini “balzi” riscontrabili dal lettore in quel continuo oscillare tra presente e passato, tramite i classici studiati dall’autore, possono apparire bruschi. Invece sono proprio essi a favorire l’esercizio della critica, grazie a una esemplare chiarezza espositiva, un eclettismo consolidato da anni di confronti dialettici interdisciplinari e, soprattutto, a una chiarezza di idee che rende agevoli anche i segmenti più impervi. Giungono così fino a noi, in luce nuova, Machiavelli, di cui Viroli è studioso di fama internazionale, Mazzini; fino a Croce e Pasolini, ri-scoperto soprattutto attraverso gli incalzanti percorsi di Gabriella Argnani, sua moglie.
È con queste modalità originali che le grandi tematiche della transizione in atto, le sfide posteci dalla globalizzazione, le implicazioni sociali, politiche, morali vengono illustrate per accompagnarci verso una personale, ineludibile, assunzione di responsabilità. L’unica, estrema, forma di resistenza possibile nell’epoca in cui la forza manipolatrice a disposizione dei dittatori, camuffati sotto varie spoglie, ha assunto dimensioni mai raggiunte dai regimi dei secoli trascorsi.
«I nuovi fascismi – avverte Viroli (p. 13) – non sono troppo dissimili [dal] passato, ma la loro mutazione li ha resi molto più pericolosi e insidiosi». E così, mentre «il grande capitale prospera nel mondo e addirittura nel cosmo e necessita di un’omologazione globale», i nazionalismi prosperano recando con sé la paradossale contraddizione «di essere retti o sostenuti dai vassalli di chi ha i propri interessi in uno spazio molto più ampio della nazione».
I risultati sono catastrofici: caduta verticale del concetto di cultura, aziendalizzazione e privatizzazione delle scuole, della sanità, delle risorse essenziali per vivere; disuguaglianze. E poi l’affermarsi di un linguaggio povero, incentrato su concetti, quali debito, credito, meritocrazia… elevati a valori per un addestramento basato sul servilismo. Nel mondo dell’informazione, simultaneamente, assistiamo a veri e propri fenomeni di appiattimento verso il conformismo. Così il passaggio da cittadino a consumatore e a suddito è servito in formato contemporaneo su scala mondiale, in linea con le grandi tradizioni tiranniche del passato.
Un pensiero tragico e scomodo, sintetizzato, a pagina 34, dalla lapidaria citazione di Pier Paolo Pasolini:
«Non so […] cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato con la violenza dalla necessità della produzione e del consumo».
È l’estremo appello a ritrovare il senso dello sdegno, verso l’ingiustizia, verso le élite che vogliono impadronirsi della Repubblica, violentando la Costituzione, la sola che può indicare compiutamente la via della pace, nel ricordo del pensiero e dell’azione dei Rosselli, dei Calamandrei, dei Parri.
«Accade sempre più spesso – commenta amaramente Viroli – di ascoltare concittadini che esaltano l’intelligenza e l’estro di personaggi quali Elon Musk, Mark Zuckerberg, Thiel e si fidano di loro perché intelligenti, ricchi e famosi.
Quando ascolto quei discorsi io rabbrividisco.»
Il motivo sta nell’evidente cattiva influenza generata dai fenomeni di persuasione occulta, diffusi su tutto il pianeta e agevolati dalle nuove formidabili tecnologie. Montesquieu teorizzava che il terrore sta alla base dei governi dispotici perché induce alla passività. Oggi non serve più neppure quello perché i nuovi autocrati possono, orwellianamente, spargere la paura in modo sottile, facendo leva sui bassi istinti della meschinità, dell’invidia, dell’avidità grazie ai nuovi prodotti della tecnica a disposizione in virtù del loro strapotere economico. Di fronte a questi scenari non solo persone di carattere mediamente coriaceo, ma interi popoli sembrano arrendersi.
Non è quindi che il mondo oggi è talmente «bello» da poter fare a meno di ogni forma di opposizione e di critica. Tutt’altro. Siamo semplicemente stati resi «docili». Ma, ammonisce Viroli, «un essere umano incapace di resistenza e di reazione non è un essere umano.»
Che fare?
Nell’ora più buia è indispensabile accendere qualche face, saper andare controcorrente e, magari, all’occorrenza, ritornare alla poesia intesa come l’ancora di salvezza verso «l’insopprimibile istanza del lógos occidentale» di cui ci parlava Massimo Cacciari quasi vent’anni fa. Ed è così che il volto straziato di Pier Paolo Pasolini può sorprendentemente assumere le sembianze del viso sfigurato del giovanissimo Anteo Zamboni: bloccato da Carlo Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo, e poi linciato a Bologna dopo l’attentato a Mussolini nel 1926. Intrecci di destini, nemesi, ricorsi, coincidenze, delitti, espiazioni, visibili grazie alla parola che si fa luce per guidarci oltre l’oscurità. E allora la patria, più che nazione chiusa dall’egoismo, perennemente in astioso conflitto con altre nazioni, o ridotta a ente ineffabile, sperduto nel mare della globalizzazione cosmopolita, può essere «pensiero d’amore», come ci ha spiegato Mazzini e come ancor oggi ci suggerisce l’anelito dei popoli che una patria non ce l’hanno o l’hanno perduta.
È da questa distorta idea di patria che occorre liberarsi, se vogliamo salvare l’Europa e liberare davvero Gaza… e il Congo, e il Sudan e l’Iran… come ammoniva Seun Kuti, figlio di Fela Kuti, ricordato in un recente intervento di Maurizio Maggiani (Il viaggio di Gloria e la terra che resiste. «La Stampa», 1 settembre 2025).
Ecco, ora è chiaro che le responsabilità principali di tenere accesa quella speranza vanno individuate innanzitutto nel gotha degli intellettuali, investono la classe politica, ma poi riguardano ciascuno di noi, presi a uno a uno. Una sfida ardua per monadi smarrite dopo il 1989, dopo l’uccisione di Moro, dopo la storia degli ultimi trent’anni perché è stato letteralmente sconvolto un certo modo di intendere la politica: non solo nel suo aspetto più nobile o “antico”, ma pure come evoluzione delle relazioni umane, di tensione democratica. Al proposito il pensiero di Viroli appare venato da profondo sconforto nei riguardi dei principali attori agenti sulla scena mondiale, fino alla classe dirigente del Partito Democratico.
La paradossale simbiosi di rigurgiti nazionalisti e ultraliberismi è infatti frutto anche della pochezza etica generale e di un establishment che ha ritenuto più comodo il quieto asservimento alle dinamiche imposte dagli algoritmi al cospetto di un popolo, anzi di una massa, ormai prona e schiava degli input dei social e delle IA. Un cortocircuito oscurantista, al cospetto del quale anche le menti più salde vacillano. Resta dunque solo lo studio severo, possibilmente condotto negli archivi veri e polverosi che ancora sopravvivono anziché attraverso la documentazione selezionata dagli schemi procedurali delle piattaforme controllate dal potere.
Non resta che essere «Vestali» delle grandi idee.
Maurizio Viroli, Consumare obbedire tacere. La nuova preistoria dell’Occidente, in dialogo con Roberto Bertoni, Roma, Castelvecchi, 2025
