Il voto è libero e segreto. Questa è una delle fondamentali garanzie della democrazia. E in merito a un voto, che sia quello per una consultazione elettorale o referendaria, si ha la facoltà di manifestare pubblicamente o meno il proprio pensiero. Dico subito che, personalmente, ai 5 referendum che si svolgeranno l’8 e il 9 di giugno io mi esprimerò con altrettanti “Sì”.
Detto questo, e prima di venire alle mie motivazioni, voglio soffermarmi su una questione: quella della responsabilità istituzionale. Per ognuno di noi, nell’essere liberi cittadini, esiste anche l’opzione, discutibile ma legittima, di non votare. E, nel caso di un referendum, questa opzione può significare sia la volontà di non esprimere un voto, sia quella, non nascondiamocelo, di non far raggiungere il quorum alla consultazione. Quorum richiesto per rendere valido il voto abrogativo. Ma coloro che hanno alte responsabilità istituzionali dovrebbero ricordare sempre – io lo so bene essendo stato ministro della Repubblica – di essere un po’ meno liberi degli altri cittadini. Esiste un contegno istituzionale, l’obbligo di essere super partes che, in particolare quando si ricopre un’altissima carica pubblica, non andrebbe mai perso. Dispiace, perciò, che il presidente del Senato, invitando a disertare il voto, abbia dimenticato quel dovere di responsabilità. Dispiace proprio perché chi svolge un simile ruolo, seppur venendo da una parte politica, dovrebbe ricordare che ricopre quella carica per tutti e non può più stare su una barricata. Far questo, prima di tutto, svilisce le Istituzioni repubblicane e la nostra democrazia.
Veniamo alle materie oggetto del voto. Come è noto, quattro consultazioni riguardano normative relative al lavoro e una i tempi per l’acquisizione della cittadinanza per gli stranieri extracomunitari già legalmente residenti in Italia.
Cominciamo dal lavoro, chiarendo che non si vota per l’abolizione del cosiddetto Jobs Act, il quale era una legge delega che dava al Governo Renzi il mandato di legiferare su alcune materie. Dal Jobs Act discesero 7 leggi. La prima, la sola sottoposta al voto, è il decreto legislativo 23/2015 che introdusse il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”. Il quale ha cancellato il diritto alla tutela reale, vale a dire la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, data di approvazione del Decreto. A quel tempo ero presidente della commissione Lavoro alla Camera che approvò il Parere finale con alcune condizioni vincolanti, tra le quali la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Condizione che fu purtroppo totalmente ignorata dal Governo. Il contratto a tutele crescenti fu dichiarato incostituzionale solo tre anni dopo la sua entrata in vigore, con la sentenza 194/2018 della Corte Costituzionale. Vi sono stati in seguito altri interventi sia legislativi sia della Consulta. Qui voglio solo ricordare una delle ultime sentenza, la 183 del 2022, che dichiarò indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti, in quanto “materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo”. Al di là dei profili costituzionali, rimane il merito politico della scelta fatta allora, cioè cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con tutto il suo valore. L’effetto abrogativo proposto dalla Cgil sarà, perciò, quello di estendere la reintegra a tutti i lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti, a prescindere dalla data di assunzione.
Gli altri 3 quesiti referendari in materia di lavoro riguardano: l’abrogazione delle norme che fissano un tetto (basso) ai risarcimenti in caso di licenziamento nelle piccole imprese; l’abrogazione delle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine, neutralizzando le causali previste in precedenza; l’abrogazione delle disposizioni che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Non si può non vedere quanto sia giusta l’intenzione di abrogare tali riduzioni di ragionevoli diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Come già ricordato sopra, il quinto referendum, promosso dal segretario di + Europa, Riccardo Magi, punta al dimezzamento, da 10 a 5 anni, dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la presentazione della domanda di concessione della cittadinanza. In molti Paesi europei, come Francia e Germania, il periodo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza è già ora di 5 anni. Non si vede perché dovremmo essere da meno di altri Paesi europei avanzati nei quali, peraltro, il fenomeno migratorio ha un rilievo molto maggiore che in Italia.
Tutto è discutibile. E i cittadini hanno il sovrano diritto di accostarsi a una consultazione in base alle proprie convinzioni e nel modo che scelgono. Non è per nulla legittimo, invece, disinformare e usare un altissimo ruolo istituzionale per sabotare l’espressione della sovranità popolare garantita dalla Costituzione.