Un 25 aprile di traversie e di opportunità

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Alcuni osservatori stranieri si domandano perplessi come mai a quasi 80 anni di distanza dagli eventi della Resistenza questo materiale storico sia ancora nel nostro paese sostanza incandescente, costituisca luogo di controversia e alimenti un’aspra polarizzazione politico-culturale. In un mondo segnato ovunque da memorie brevi, come mai questo passato non passa, anzi se ne perpetua il lessico nel linguaggio comune – fascista, antifascista-, e si assiste alla resurrezione di gesti, miti e simboli, su cui la storia ha già emesso decenni or sono una condanna definitiva e senza attenuanti? Molte sono le possibili risposte, ma tra tutte se ne potrebbero scegliere un paio. Anzitutto perché quei venti mesi rappresentano il momento più tragico e tormentato della storia dell’Italia unita e, in secondo luogo, perché si inscrivono nella storia breve di una “nazione tardiva”, diventata comunità civile coesa soltanto poco più di un secolo e mezzo fa.

Nel corso complessivo di quella storia breve i mesi racchiusi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 rappresentano il crogiuolo rovente di una seconda nascita, seconda dopo la fase genetica del Risorgimento e, più di quest’ultima, sofferta e problematica. In quei venti mesi segnati da patimenti e fame, stragi e uccisioni si affrontarono e si confrontarono idee di Italia contrapposte, è in quel periodo che il popolo italiano si misurò drammaticamente con endiadi cruciali per l’identità del paese – democrazia/dittatura; pace/guerra; libertà/autorità; uguaglianza/gerarchia; solidarietà/emarginazione – e con nozioni fondanti per il futuro, quali quelle di cittadinanza, di partecipazione, di pluralismo, di giustizia sociale. Giovani e meno giovani, uomini e donne, civili e in divisa si trovarono allora a compiere una scelta che toccava nel profondo ciascuno di loro e che conteneva in sé progetti di futuro radicalmente opposti. Fu una scelta difficile e terribile, su cui giocava anche il caso, tanto che Italo Calvino fa dire al partigiano Kim «Bastava un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trovava dall’altra parte». Prevalse una delle due parti e grazie a quell’epilogo, con la sconfitta del nazifascismo, l’Italia, dopo aver intrapreso guerre ingiuste e sanguinose, rientrò nel novero delle nazioni pacifiche e civili e avviò un processo di democratizzazione che continua accidentato sotto i nostri occhi. Alla fine della guerra, dopo la Liberazione, il progetto di una nuova società, un progetto dinamico e aperto all’evoluzione del futuro, prese forma nella Costituzione con un significato di radicale discontinuità col passato e di consapevole rottura dei precedenti ordinamenti. In quel testo, pensato come un ponte tra passato e avvenire, si delinearono le nuove regole di convivenza della comunità civile, ancorate al principio della partecipazione democratica e volte a garantire il massimo di diritti politici, civili, sociali a tutti i cittadini riconosciuti di pari dignità.  Quella seconda nascita con l’affermazione audace di valori forti – la pace, la non violenza, la solidarietà tra gli uomini, la parità di sesso, la libertà di pensiero e di espressione, la libertà di culto, il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione, – rappresentò certo una fuga in avanti rispetto a un paese di scarsa cultura politica, modellato da esperienze di soggezione antica e moderna, autoritaria e totalitaria. E le polemiche di oggi e di ieri sono il segnale del “metabolismo” di quei valori nel comune sentire del paese, ci indicano le tensioni di un sistema politico che procede a tratti su traiettorie divergenti e può anche innestare la marcia indietro. Oggi ci si indigna per l’assenza preannunciata da una delle altre cariche dello Stato alla celebrazione del 25 aprile.

Ma forse dimentichiamo che questa festa della riconquistata libertà dopo la dittatura, della ritrovata pace e della speranza, non è sempre stata cara alle alte cariche dello Stato: ricordiamoci di Berlusconi al governo e della sua intermittente partecipazione, ma anche di tanti 25 aprile recitati stancamente, annacquando i valori dell’opposizione al fascismo in un indistinto omaggio a tutti i caduti. A ragione potremmo dire che il 25 aprile è da sempre un test della cultura politica dei nostri rappresentanti, al governo come in periferia, ma che è anche il termometro che misura l’indifferenza o la consapevolezza critica e la volontà d’impegno della società civile. Certo indigna che chi giura sulla Costituzione ne rinneghi lo spirito antifascista né tragga le conseguenze della sua estraneità a questo corpus di valori e principi. Ma trasformiamo questa traversia in opportunità e cogliamo proprio il 25 aprile l’occasione per capire fino in fondo quanto la democrazia necessiti della nostra quotidiana manutenzione e quanto quella stagione fondamentale della storia italiana ci chieda giorno dopo giorno di essere all’altezza del suo lascito di diritti e di doveri.


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