Accadde il 20 luglio

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Talvolta, da lontano, precisamente da Genova, le cose si capiscono meglio. Lo scenario appare più chiaro, meno confuso, complessivamente straziante ma non nebuloso come può sembrare osservando da vicino il disastro. Ciò che è andato in scena nel Parlamento italiano il giorno della fiducia al governo Draghi è uno spettacolo tristissimo, con un presidente del Consiglio che deve aver seguito i suggerimenti di chi lo induceva a non trattare, a non cedere, a non mediare su nessun punto, pronunciando un discorso inaccettabile da parte di un uomo delle istituzioni. Spiace dirlo, ma il problema è proprio Draghi in sé. Non la persona, notoriamente perbene, ma la mancanza di formula politica con cui è stato chiamato dal Capo dello Stato: un errore da cui sono dipesi tutti i successivi, a cominciare dalla sua visione monocratica, dalla sua concezione che non concepisce sfumature, dalla sua idea che nessuno possa disturbare il riformatore supremo chiamato a trarre in salvo il Paese.

A tal proposito, destano tenerezza i commenti di alcuni suoi strenui sostenitori: tutta gente cui delle sorti dell’Italia è sempre interessato poco, intenti a magnificare l’uomo e lo schema politico che avrebbero dischiuso loro le porte del mitico centro, un’aggregazione di populismo dall’alto in grado di escludere il populismo dal basso, tagliare le presunte “ali estreme” e cristallizzare lo stato delle cose senza che a nessuno fosse consentito di metterlo in discussione. Non poteva che finire così.

Basti pensare, infatti, alla scarsa credibilità di alcuni di questi soggetti. Non ci dimentichiamo, infatti, che alcuni dei ministri del governo dimissionario erano tra i principali alfieri del governo Berlusconi che condusse l’Italia sull’orlo del baratro, con lo spread a quota 575 punti e i tassi d’interesse intorno al 7 per cento. Basti pensare che quest’esecutivo era composto da forze politiche che non hanno mai avuto niente in comune, se non, specie per quanto riguarda la sinistra e il M5S, uno scarso coraggio nello sfidare gli strali comunicativi di una certa “informazione”. A Mario Draghi si sarebbe dovuto dire no sin dall’inizio. No a questa formula, no a questo modello e, soprattutto, no a politiche che non hanno nulla di progressista, di riformista o di migliorativo per la vita delle persone, a cominciare dalle fasce sociali più deboli. Draghi, personalità autorevole del mondo bancario e finanziario, ha governato a modo suo, con una cerchia di fedelissimi, senza ascoltare quasi nessuno, imponendo al Parlamento l’umiliazione di ben cinquantacinque fiducie in diciassette mesi e varando un PNRR assai diverso rispetto a quello pensato da Conte e senz’altro peggiorativo. Un dato su tutti in merito al suo operato concerne l’acqua pubblica, rivendicata e stabilita da milioni di cittadini nel 2011, grazie a un referendum ad hoc, e oggi sostanzialmente privatizzata dal DDL Concorrenza. Così non si può andare avanti.

Quando si rompe del tutto, per sempre, il rapporto con la cittadinanza, la torsione in senso plebiscitario è dietro l’angolo. E l’idea, esposta fra gli altri dal segretario del PD Letta, di un’alleanza che metta insieme tutto e il contrario di tutto, in nome della cosiddetta “Agenda Draghi”, unendo la sinistra di Speranza alla destra di Gelmini e Brunetta, denota solo disperazione senza proposte e senza identità. Oltretutto, se in una settimana si passa dal campo progressista con Conte e il M5S al suo contrario, vien da temere che non si creda né nell’uno né nell’altro e che l’unico scopo sia rimanere al potere a qualunque costo, con ogni maggioranza. Ci auguriamo di cuore che non sia così, ma a undici anni dalla nascita del governo Monti qualche sospetto in tal senso è legittimo. Senza contare che anche le biografie dovrebbe avere un valore. E la Gelmini era e resta la ministra della Pubblica istruzione che, nel 2008, accettò senza batter ciglio i tagli imposti da Tremonti, contribuendo a devastare la scuola italiana. Per non parlare di quando, nel 2015, dopo che l’agente Tortosa aveva affermato che sarebbe rientrato alla Diaz altre mille volte, disse che, pur non escludendo eventuali “errori”, per lei quella notte non c’era stata tortura. Peccato che la sentenza di Strasburgo Cestaro contro Italia dica, sostanzialmente, l’opposto. Quanto a Brunetta, ricordo ancora la sua battaglia contro i presunti “fannulloni” nella pubblica amministrazione e i commenti che si ascoltavano all’epoca nelle sezioni del PD e della sinistra. Per battere la destra, questa destra, bisogna essere coerenti.

Mettere insieme gli opposti è il regalo che, francamente, la Meloni, Salvini e quel che resta di Forza Italia non meritano. Infine, una considerazione non secondaria. Il draghismo è liberismo allo stato puro, all’insegna di meno pubblico, più privato, minore sicurezza sociale e più concorrenza e mercato. La destra, questa destra, ha tutti i difetti del mondo più qualcuno ma, economicamente parlando, ha un programma di protezione sociale nazionalista che potrebbe attrarre soprattutto i ceti più deboli e massacrati dalla crisi. Illudersi che l’agenda di un banchiere, con idee e proposte da “fine della storia”, possa attrarre il consenso dei dannati della globalizzazione, significa non aver capito nulla di ciò che è accaduto negli ultimi due decenni. E rilanciarla con tanta sicumera vuol dire anche non avere alcun rispetto per i drammi di milioni di persone, travolte dalla disperazione generata dalle crisi a ripetizione con cui abbiamo dovuto fare i conti negli ultimi anni e ormai prive della fiducia in chiunque.

Il fatto che la caduta del governo Draghi sia avvenuta proprio il 20 luglio, ossia in occasione del ventunesimo anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani, ci fornisce alcuni ulteriori spunti di riflessione. Pur non credendo nella Cabala e non volendo affidarci a formule stregonesche, non c’è dubbio che l’artefice delle privatizzazioni a raffica degli anni Novanta incarni l’opposto di ciò che chiedevano le ragazze e i ragazzi che vennero massacrati di botte a Genova, per la sola colpa di auspicare un mondo diverso e di non voler sottostare ai dogmi della finanza e di una globalizzazione tagliata su misura dei ricchi e a scapito dei poveri, dei fragili e di chiunque fosse destinato a restare indietro. Rivendicare il draghismo e venire a parlare di questioni climatiche e ambientali è un controsenso, e lo stesso vale per scuola, lavoro e qualsiasi altro argomento che tocchi da vicino gli elementi cardine di quell’altro mondo possibile e necessario che si invocava nel 2001 e che ormai non sappiamo più se sia realizzabile, dato che il pianeta sta esaurendo le riserve e sta pagando il prezzo altissimo di quel dissennato modello di sviluppo.

A quanti si ostinano ad accusare chi solleva questi temi di volare troppo alto rispondo, poi, che è proprio il loro camminare rasoterra, fra propaganda, liste elettorali, promesse irrealizzabili e argomenti insulsi, offensivi e lesivi dell’intelligenza altrui, ad aver spianato la strada a una destra che oggettivamente desta qualche preoccupazione, innanzitutto per quanto concerne la sicurezza, tornata subito d’attualità, e la gestione dei flussi migratori e dell’ordine pubblico. Se a tutto ciò aggiungiamo che con questa destra molte e molti di loro ci hanno amabilmente governato, Salvini e Meloni compresi, si comprendono meglio le ragioni dello scoramento e del distacco, anche psicologico, della base. Non solo: non dimenticherò mai l’irrisione cui è stato sottoposto chiunque facesse notare, a dicembre, che recarsi giulivi alla festa di partito di una che ha proposto l’abolizione del reato di tortura, il presidenzialismo e che non ha ancora riconosciuto la matrice squadrista dell’assalto alla sede nazionale della CGIL non fosse un segno di pragmatismo ma un errore madornale, capace di disorientare e mettere in profondo imbarazzo chiunque si riconosca in un’idea, anche moderata, di centro-sinistra.

Trovandomi in piazza Alimonda nel giorno in cui, a Roma, l’esecutivo andava in frantumi, ho avuto ancor più netta la sensazione di una cesura totale fra quel mondo e le istituzioni. Ho osservato volti e sguardi di persone meravigliose che in questa politica non si riconoscono più e non vogliono più saperne. E ho capito che il PD avrebbe sbagliato, per l’ennesima volta, tutto, proprio come ventuno anni fa. Del resto, dopo oltre due decenni di errori, cedimenti e un progressivo, e ormai quasi assoluto, distacco dal mondo reale e dalla propria gente, ci si può anche illudere di recuperare qualche dirigente di un centro che ha più capi che elettori ma non si può sperare di recuperare un popolo che si è deciso di abbandonare a se stesso e, sostanzialmente, di umiliare con comportamenti irrispettosi quando non addirittura velati da un certo disprezzo. Peccato che senza quel popolo, il suo orgoglio e la sua passione civile, Giorgia Meloni abbia già vinto, con tutte le conseguenze che si possono immaginare sin d’ora.


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