Dalla parte della pace e della vita

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Premessa

“Dalla parte di Lei” in questo ultimo lunedì di aprile si ritrova con una guerra iniziata due mesi fa con la brutale invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo.

Questo lunedì è anche il 25 aprile: festa di Pace, della Resistenza e della liberazione dell’Italia dal nazifascismo settantasette anni fa.

La guerra era appena finita lasciando macerie, disastri, dolore immenso. Stermini, persecuzioni, torture non erano ancora conosciute nella loro dimensione crudele e disumana, non si parlava ancora di genocidio.

Ma i nostri padri e le nostre madri costituenti, che erano stati partigiani, ribelli per amore, avevano già intuito che, dopo la seconda guerra mondiale, e dopo la tragedia di Hiroshima e Nagasaki, due bombe atomiche sganciate dagli USA su due città del Giappone, a guerra ormai finita, nulla poteva essere pensato e agito come prima.

Bisognava ripensare le idee di libertà, giustizia, uguaglianza, per le quali avevano combattuto il nazifascismo, declinandole in principi fondamentali e condivisi.

Per questo avevano espresso un pensiero forte: mai più guerra che l’Italia ripudia (articolo 21 della nostra Costituzione).

Non è stato così. I conflitti cosiddetti ‘locali’ sono stati e sono tanti. In Africa, in Asia, in Medio Oriente. Ma anche in America Latina e in Europa. Una geografia di dolore, morte e distruzione: l’80% delle vittime è composto da civili inermi, donne e bambini: guerre più lontane nel tempo e nello spazio o più vicine come la Siria, l’Afghanistan, diverse altre nel mondo, la guerra contro l’Ucraina in Europa.

I grandi movimenti per la pace in tutto il mondo dei primi anni ’80 sono stati decisivi. La caduta del muro di Berlino nell’89 aveva posto fine alla ‘guerra fredda’ in Europa, con lo scioglimento del Patto di Varsavia (1991). Preceduto dal vertice tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov a Reykjavík nell’ottobre 1986 che aveva tracciato la strada per una sostanziale riduzione di materiale missilistico a media o lunga gittata. Nel dicembre del 1987, a Washington, era stato firmato il Trattato INF (Intermediate Nuclear Forces) che aveva portato all’eliminazione e distruzione dei missili Cruise, PershingII e SS-20. Il 31 luglio 1991 a Mosca, George H.W. Bush e Mikhail Gorbachev siglano l’accordo START (Strategic Arms Reduction Treaty), Trattato di riduzione delle armi strategiche, un “impegno di pacificazione” nella consapevolezza reciproca che “una guerra nucleare non poteva essere vinta e pertanto non doveva mai essere combattuta”.

Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni. (Martin Luther King Premio Nobel 1964. “Per la sua lotta non violenta contro il razzismo per i diritti umani”

 

Dopo l’11 settembre 2001 si è riprovato con il Trattato New START, entrato in vigore nel febbraio 2011 con la firma di Barack Obama e Dmitrij Medvedev. Nel frattempo 14 paesi dell’ex Patto di Varsavia entrano nella Nato . Il trattato scaduto nel 2021 è stato prorogato per cinque anni (Joe Biden e Vladimir Putin).Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina, in un messaggio congiunto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, hanno ribadito, all’inizio del 2022, il loro impegno a rispettare gli obblighi del trattato (in previsione del rinnovo del Trattato per la messa al bando delle armi nucleari TPNW), “e per proseguire su misure efficaci per la cessazione della corsa agli armamenti …fino a un trattato di disarmo generale e completo sotto un controllo internazionale”. Si ribadisce altresì “il principio che impegna le potenze in possesso di armi nucleari a non minacciarne l’uso per conseguire vantaggi politici”. E non si comprende perché queste dichiarazioni non vengano mai ricordate. Non tutti i paesi che detengono armi nucleari (oltre alle cinque potenze) o che le ospitano nel loro territorio, come per esempio l’Italia, vi hanno aderito. Intanto si è continuato a produrre armi sempre più progredite e micidiali; si sono ridotte le testate nucleari ma quelle rimaste sono più che sufficienti per provocare un “inverno nucleare” sull’intero pianeta.

Siamo solidali con il popolo ucraino, siamo dalla parte delle vittime: con più ansia e paura perché è una guerra nel cuore dell’Europa, molto vicina a noi. E molto pericolosa: potrebbe estendersi in dimensione e atrocità. Papa Francesco parla di “Terza guerra mondiale a pezzi” e rivolge un appello etico ma anche politico per costruire la pace.

Far tacere le armi subito, fermare i massacri e avviare un serio negoziato con un soggetto mediatore autorevole che può essere l’Europa.

Abbiamo pensato di proporre, in questo lunedì, il pensiero di alcune donne, nella storia più lontana e più recente, per la pace contro la guerra come scelta etica e politica. Scelta molto impegnativa e difficile. Pensiamo sia il momento dell’Europa che deve e può evitare che ogni paese pensi ed agisca da sé e per sé. Un’Europa di pace: questa la vera potenza.

Verso un’Europa sognata da Ursula Hirschmann una donna decisiva (ma quasi mai ricordata) che insieme ad Altiero Spinelli Ernesto Rossi Eugenio Colorni ha elaborato e diffuso il Manifesto di Ventotene: “…la Federazione Europea è l’unica garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano volgersi su una pacifica cooperazione in attesa di un più lontano avvenire in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo…” (dal Manifesto di Ventotene 1941).

 

 

Dalla parte della pace e della vita

Dialogo tra Adriana Chemello e Mariangela Gritta Grainer

 

 

La foto di Irina e Albina, le due donne, ucraina l’una e russa l’altra, volute da Papa Bergoglio a rappresentare la XIII stazione della Via Crucis del venerdì santo, è destinata ad entrare nella storia come icona parlante della Pasqua 2022, una “Pasqua di guerra”. Una foto suggestiva ed altamente evocativa: le mani delle due donne si sfiorano e si intrecciano attorno al legno della croce. I loro sguardi, pur carichi di sofferenza, dolore, disperazione per il presente incupito dagli orrori della guerra, si scambiano una reciproca carezza, aprendosi verso una riconciliazione per le due nazioni in conflitto. Un’immagine simbolica ed eloquente che predica la forza delle donne, la potenza dell’amicizia tra donne, la loro capacità di darsi reciproca autorevolezza.

Non trovo didascalia più appropriata per illustrare questa foto che le parole di Cassandra, la donna antica rivisitata e fatta rivivere dalla scrittrice tedesca Christa Wolf: «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere».

Assumendo su di sé tutto il dolore del mondo, queste due donne sembrano voler attualizzare il pensiero di pace formulato da Virginia Woolf, nell’agosto del 1940, in un saggio breve dal titolo: Pensieri di pace durante un’incursione aerea. Sono pensieri che nascono in presa diretta, mentre gli aerei della Wehermacht tedesca scorrazzavano sopra il cielo di Londra, scaricando il loro micidiale paniere di bombe.

Virginia si interroga su come sia possibile «lottare senza armi per la libertà» e trova subito la risposta: «Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee». E aggiunge: «Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente e non a favore di essa». La sua riflessione si sofferma poi sulla parola “disarmo”, considerata condizione imprescindibile per la pace («Non ci saranno più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani non saranno più addestrati a combattere con le armi»). Ma Virginia ha consapevolezza che il “disarmo” non si realizza dall’oggi al domani: va preparato gradualmente, esige una trasformazione sociale, economica e delle coscienze, in parole semplici bisogna far mettere radici ad una forma mentis alternativa a quella dominante: la guerra è una follia degli uomini, uscire dalla logica patriarcale – aveva sostenuto nel saggio Three Guineas (Le tre ghinee) scritto qualche anno prima – è togliere ossigeno allo spirito che conduce alla guerra. Ma per cancellare la guerra dalla storia del mondo «dobbiamo aiutare i giovani […] a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, […]. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi […] aprire l’accesso ai sentimenti creativi. […] Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione». Riecheggia qui il pensiero del filosofo americano, di tradizione liberal, William James che all’inizio del secolo scorso, in una conferenza tenuta alla Stanford University di Boston, aveva per la prima volta parlato di The moral equivalent of war, cioè l’“equivalente morale della guerra”, le attività più onorevoli della guerra.

Un pensiero di pace che si fa “azione onorevole” è quello che ha guidato il 14 marzo 2022 la giornalista Marina Ovsjannikova, apparsa con un cartello contro la guerra (NO WAR) alle spalle della conduttrice di un programma di approfondimento Vremja su Pervyj Kanal, creando scompiglio e disordine con la sua denuncia silenziosa: «Vi stanno mentendo». Intervistata da un quotidiano italiano, Marina Ovsjannikova confessa di aver voluto «fare un gesto di dissenso» e «mandare un messaggio al popolo russo» e, quasi a voler ridimensionare il suo gesto, aggiunge: «Non mi sento un’eroina […] Sono solo contraria alla guerra».

In linea con questo assunto le donne palermitane di diverse associazioni hanno fatto rete e, partendo da un punto di forza ancorato alla storica estraneità delle donne dai luoghi di potere (maschile) in cui si decidono e si dichiarano le guerre, hanno lanciato un appello al grido “Fuori la guerra dalla storia”: «Noi vogliamo cancellare l’idea stessa di guerra, anacronismo distruttivo che contraddice ogni concezione progressiva e umanitaria. Vogliamo trasformare l’ordine della forza e del dominio, che genera guerra e morte, nell’ordine dell’amore e della cura che genera vita».

A costoro si aggiungono tante voci autorevoli di donne, come la teologa Antonietta Potente che di fronte alla pressione di chi invita a schierarsi, fa notare che prendere posizione per l’uno o per l’altro dei belligeranti significa alimentare il conflitto, potenziandolo fino alle estreme conseguenze: «Quello che noi donne proviamo è dolore e solo dolore, di fronte all’ennesimo esempio di quegli ambigui matrimoni celebrati tra patriarcato e potere». Perché «in guerra si perde ciò che è veramente vita». E aggiunge: «In guerra si perde molto di più delle risorse naturali; si perde la vita, quella vita fatta dal sentir piacere che noi donne amiamo tanto. Si perdono i fiori, gli alberi; si perdono gli sguardi amichevoli, si perde bellezza e quel piacere che solo la quotidianità sa regalare. I profumi di un luogo, le risate, il piacere di imparare, il piacere di festeggiare, di pregare non per paura ma per grazia […] è ciò che fa una guerra: uccide la vita delle persone, anche quella di chi non morirà o non risulterà tra gli scomparsi».

Edith Bruck in una recente intervista pubblicata su «Il Riformista», ancorandosi alla sua esperienza di sopravvissuta, ribadisce con forza che «Nessuna guerra è giusta. E nessuna guerra è paragonabile ad un’altra guerra. Nessun disastro si rimedia con un altro disastro. Ognuno è disastro per conto suo, per ragioni diverse, per politiche diverse, interessi diversi. È molto triste ma è così». E ribadisce convinta la sua contrarietà all’invio di armi: «Perché un’arma porta ad un’altra arma. L’arma porta la morte. Si fornisca pane, si fornisca aiuto, si fornisca tutto. Tutto, meno che le armi. Il mondo è pieno di armi. Ne vogliamo ancora di più? Quando creano armi, le creano per uccidere. Vogliamo fare del mondo, come diceva mio marito Nelo Risi, un Museo delle armi? Le armi servono per aggredire, per uccidere. Io sono contro qualsiasi arma, anche un coltello».

Lea Melandri, in una lucida riflessione pubblicata su «La Stampa» del 2 aprile 2022, intitolata Se la guerra fa rinascere il potere del patriarcato, manifesta il suo radicale «NO alla guerra» e «NO alle armi», individuando, sulla scia del pensiero magistrale di Virgina Woolf, nelle guerre uno «strumento di dominio» che affonda le «sue lontane, ma durature radici» nella cultura patriarcale:

a riportare un ordine patriarcale in declino ci pensa, come è già capitato più volte nella storia, la guerra: quella domestica dei femminicidi e quella sociale delle armi. Da una parte tornano ad esserci “donne e bambini”, “madri e mogli” a cui dare rifugio e protezione e versare lacrime e fiumi di retorica politica, dall’altra la chiamata degli uomini al coraggio virile delle armi, compresi quelli che forse non lo vorrebbero, ma sono trattenuti, dalla paura di rinunciare ai benefici di un potere millenario e di essere considerati dei “rammolliti”.

Necessita insomma una inversione di passo che sostituisca alla logica della supremazia e dell’aggressione armata la costruzione di un futuro comune condiviso, fondato sul rispetto della vita e degli esseri umani, che interrompa “la follia della guerra” costruendo azioni “più onorevoli” e più umane: alla belligeranza tra le nazioni deve sostituirsi la pace dei popoli.

In un saggio di qualche anno fa intitolato Inclinazioni (Milano, Cortina editore, 2013), la filosofa Adriana Cavarero esprime una «critica della rettitudine», quella che vede incarnata nella linea verticale, nella postura dell’«uomo retto», espressione di sicurezza e dominio del mondo. Un «dispositivo di verticalizzazione» che domina incontrastato nella società patriarcale e la cui massima espressione è raggiunta nella guerra. A fronte dell’«uomo retto», Cavarero individua una postura “femminile”, emblematizzata nella tela di Leonardo, Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello, in particolare nell’«inclinazione» di Maria verso il figlioletto. Nello sguardo obliquo della madre sul neonato, assecondato dalla postura del corpo, Cavarero legge un inclinarsi della madre che predica l’esperienza della relazionalità, dell’interdipendenza dell’umano. Nell’inclinarsi verso l’altro/a così bene inscritta nell’esperienza del materno, riconosciamo l’etica della cura che le donne praticano e hanno praticato per millenni, il loro inclinarsi verso il neonato o verso l’anziano genitore, questa soggettività relazionale che si espande dall’umano all’ambiente e ai diversi manufatti da conservare e valorizzare.

È questa «inclinazione», che ritroviamo a fondamento di una nuova umanità, nel Discorso di Papa Francesco del 24 marzo scorso quando, appellandosi direttamente alle donne, le invita a farsi portatrici di «una buona politica» che «non può venire dalla cultura del potere inteso come dominio e sopraffazione, ma solo da una cultura della cura, cura della persona e della sua dignità e cura della nostra casa comune». Nell’orizzonte di senso di Papa Francesco, «le donne sono le protagoniste di questo cambiamento di rotta, di questa conversione», con l’auspicio che riescano a «convertire il potere dalla logica del dominio a quella del servizio, a quella della cura».

Fermare la guerra, far tacere le armi, deve essere oggi l’imperativo categorico di ogni donna e di ogni uomo di buona volontà, consapevoli che le armi, fabbricate per uccidere, non risolvono i conflitti anzi li alimentano, generando una spirale infernale. Mai come oggi l’aggettivo (infernale) risulta più appropriato: la Mostra “Inferno”, realizzata presso le Scuderie del Quirinale, per celebrare i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, ha voluto dedicare l’ultima sezione “Inferno oggi” agli scenari di guerra dal secolo scorso ad oggi, con un titolo eloquente “L’Inferno in terra: la guerra”.

A.C.

 

Maria Giudice

Rileggiamo la vita di una donna che ha lottato per la pace.

Maria Giudice è un saggio che propone una riflessione a tre voci, “una danza a tre” Maria Rosa Cutrufelli, l’autrice, Maria Giudice (1880-19953) e Goliarda Sapienza (figlia di Maria). Inizia col racconto di uno degli abituali incontri con altre donne durante la prima guerra del Golfo. Sarà Adele Cambria, una giornalista e una pacifista guerriera ad aprire con forza la riflessione: “…Da quanti anni progettiamo … un lavoro comune? Questo è il momento. …Dobbiamo dire la nostra sulla guerra e sulla pace. …” Del gruppo facevano parte Clara Sereni Elena Gianini Belotti Goliarda Sapienza … e altre ancora.

Goliarda non era una pacifista: “Come potrei esserlo? …anche la parola pace mente …”, sono le sue parole. E così Maria Rosa inizia a pensare di raccontare la madre di Goliarda, Maria Giudice appunto, una pacifista guerriera anch’essa, una sindacalista, che nel 1917 aveva incitato le operaie allo sciopero contro la guerra dalla Camera del lavoro di Torino al grido: “Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliam la pace, mai più la guerra”.

Maria Giudice, sette figli con il primo compagno Carlo Civardi che sceglie la guerra e per questo Maria da lui si separerà nonostante il grande amore che li lega.

È vero anche che contro la seconda guerra mondiale Goliarda mosse una sua guerra, era la resistenza antifascista.

Maria e Goliarda: vite intrecciate che Maria Rosa racconta diventando essa stessa una protagonista. Goliarda dunque, in quel suo non essere pacifista segnalava però la “necessarietà che certe guerre hanno in sé”. In una Roma deserta occupata dai tedeschi era stata una staffetta partigiana della Brigata Vespri comandata da suo padre Giuseppe Sapienza, secondo compagno di Maria che andrà a vivere con lui nel 1921 (e dopo la morte di Carlo nel 1917) e i suoi molteplici figli: dalla loro unione nascerà Goliarda.

Maria e la sua amica Angelica Balabanoff un’esule russa di origine ucraina, sono socialiste pacifiste e non femministe ma “la libertà delle donne è … al centro dei loro interessi sempre”. Maria protagonista delle lotte operaie nei primi anni del ’900 sarà spesso arrestata e dovrà scontare settimane di carcere. A Borgosesia è in corso una protesta per il licenziamento di alcune operaie della Manifattura Lane. Maria Rosa descrive la foto che racconta l’episodio. C’è molta folla: nel mezzo una donna semisdraiata sul selciato, è tutta vestita di bianco. Due guardie in uniforme scura la tengono per i polsi e così le braccia allargate formano una croce: è Maria che si oppone all’arresto con un gesto nonviolento, teatrale, usato spesso nelle manifestazioni. È poco più che ventenne Maria e non si cura degli arresti frequenti. Ma quando, dopo un eccidio di contadini in Campania, Maria scrive un articolo di denuncia, sarà condannata ad alcuni mesi di carcere. Scopre di aspettare il primo figlio e decide che non può nascere in carcere. E così prende la via dell’esilio. Riparerà in Svizzera, è il 1904, con l’organizzazione socialista conoscerà Angelica che la ospiterà. Nascerà una bimba Josina con la quale tornerà in Italia e, lasciata la figlia al padre, dopo 15 mesi di esilio, nell’aprile del 1905 entra in carcere per scontare la sua pena. Anche la vita di Angelica Balabanoff è spericolata: di ricca famiglia voleva studiare conoscere il mondo, rinuncerà all’eredità e, dopo un lungo sciopero della fame, girerà per l’Europa. Un’amicizia quella tra Maria e Angelica inquieta sempre in cerca di qualche battaglia da costruire. Maria conoscerà con Angelica (di una rara capacità oratoria: incantava) personaggi importanti come Lenin e la moglie, Trotsky e anche Benito Mussolini agli inizi del novecento. Maria ritrova Angelica a Milano, incontra anche Mussolini che dirige l’“Avanti” e non le renderà facile la vita avendo inteso il suo temperamento. Maria si scoprirà incinta del sesto figlio che nasce il 6 marzo 1911 e l’8 marzo 1913 nasce Olga, la settima! Goliarda, l’ottava figlia nascerà nel 1924 in pieno ventennio. “… Non riesco a smettere di chiedermi da dove le viene questa ingordigia di maternità? È un rifugio? È la sua stanza segreta? È il modo di compensare una passione politica considerata eccessiva per una donna?” È Maria Rosa a chiederselo pensando a Goliarda figlia mai diventata madre ma che forse, penso, è stata madre di sua madre Maria.

Nel 1917, uscita dal carcere che aveva condiviso con Umberto Terracini, torna al partito a Torino dove tutto è in subbuglio: nella società nelle fabbriche e anche nel partito socialista che sceglie di avviare “un’offensiva pacifista”. Si forma un ampio movimento per la pace e per porre fine alla grande guerra e Maria ne è la punta di diamante. Molte le donne che reclamano il pane e la pace. La pace un obiettivo e il pane un’esigenza quotidiana. Ma il pane manca, i forni sono chiusi e presidiati dai carabinieri. … Parte la rivolta del pane: i carabinieri sono travolti le saracinesche divelte i forni saccheggiati: intervengono i blindati, è guerriglia, sciopero generale. Maria viene arrestata insieme ad altri. L’accusa questa volta è grave: insurrezione contro i poteri dello Stato. Sarà un tribunale militare a pronunciare la sentenza a luglio del 1918. Muore il suo compagno Carlo Civardi in zona di guerra. Maria sarà umiliata ignorata ai funerali e i figli affidati alle sorelle di lui: Maria e Carlo non sono sposati, per scelta.

Quando si apre il processo Maria si arrende, pensa ai sette figli appena rimasti senza padre e non si difende; Antonio Gramsci sfuma il suo ruolo politico e l’avvocato Modigliani presenta la drammatica situazione familiare. Lei ascolta e, con fierezza in quell’aula ostile dirà: “Mi difendo per i miei figli, solo per loro”. La sentenza è dura: tre anni di reclusione. Sconterà solo sette mesi perché la guerra finisce e arriva l’amnistia generale. Alla fine del 1919 il partito socialista la manda in Sicilia, arriva a Palermo la città dei Vicerè. Conosce Peppino Sapienza, l’avvocato dei poveri. Capisce subito da che parte stare quando Bernardino Verro, sindaco di Corleone e Giuseppe Rumore presidente della Lega di Prizzi vengono assassinati dalla mafia. Decide di rimanere in Sicilia con un soprannome eloquente “Samaritana” che le hanno dato. Non mancherà di andare al Congresso di Livorno del 1921: importante per la scissione che vi fu ma a cui Maria non partecipò anche per protesta: le donne sono pochissime e tenute in disparte. Scriverà che nemmeno il socialismo … riesce a emanciparsi da una cultura e da una politica barbuta.

Il 26 febbraio 1921 le camicie nere danno fuoco alla sede dei metallurgici e all’appartamento dove vivono insieme Maria e Peppino quando sono a Palermo: si salvano in modo rocambolesco. Peppino folgora Maria: è vedovo, tre figli con nomi eccentrici Goliardo, Libero e Carlomarx. Andrà a vivere stabilmente con lui portando anche i suoi sette figli che insieme ai tre “regolari” di Peppino e a diversi altri comporranno una famiglia larga ed eccentrica.

Nell’estate del 1922 il sindaco socialista di Lentini viene arrestato con l’accusa di aver ordito un attentato (una fabbrica era saltata in aria). Una mobilitazione di popolo capeggiata da Maria, difende il suo Sindaco. Maria infiamma la gente lì riunita ma, qualcuno spara dal balcone di una casa: quattro morti e cinquanta feriti. Per Maria saranno sette mesi di carcere: uscirà dopo la marcia su Roma. Con il decreto del 1926, dopo l’assassinio di Matteotti, Mussolini scioglie i partiti, i circoli operai e le leghe contadine; sopprime i giornali, l’opposizione diventa delitto di Stato. Antonio Gramsci viene arrestato l’8 novembre. Maria si ritrova sola e si chiede amaramente per che cosa ha lottato tutta una vita. Prova a fare domanda d’insegnamento: è maestra ce la può fare. Viene respinta per non avere un’adeguata “condotta morale e politica”. Un’offesa inutile tracotante, scrive Maria Rosa aggiungendo: “…non ce la vedo Maria a insegnare ai bambini come essere i fascisti di domani”. Si sfalda anche la famiglia larga e Maria incomincia a stare male, si ammala. Anche Goliarda si ammala di tubercolosi e sarà ospitata dal fratello Libero a Domodossola. Goliarda si chiede perché anche Licia e Olga se ne sono andate e Maria le ha accompagnate sul continente, affrontando le difficoltà derivanti dal regime?

Olga ha solo 15 anni, poco più di una bambina agli occhi di Maria ma grande abbastanza agli occhi di un uomo. Quale uomo? È la domanda a cui Goliarda ha cercato di rispondere per tutta la vita. Ma senza voler rispondere davvero. Quel grido, racconta Goliarda, di sua madre: “Non la stuprare!” A chi era rivolto? Forse a suo padre? Non sa rispondere ma da quel giorno lo chiamerà sempre l’avvocato.

Goliarda “..farà l’artista, come vuole suo padre, studierà come vuole sua madre che la seguirà a Roma. Gli anni passano, le lotte per la pace sono lontane, c’è un’altra guerra, nessuno bussa più alla porta della Samaritana che è sempre più sola.

Peppino viene arrestato. Nelle ultime pagine vediamo Goliarda correre per le vie di Roma a proseguire l’impegno di Maria. Fa la staffetta È con suo padre il 25 gennaio 1944, quando la Brigata Vespri libera dal braccio tedesco di Regina Coeli Sandro Pertini e Giuseppe Saragat (il 4 giugno gli alleati entreranno a Roma senza combattere)… Maria migliora a queste notizie: per lei significa la fine dell’isolamento anche se la malattia a volte riprende. Peppino sarà il primo dei due a morire d’infarto nel novembre 1949. Maria lo seguirà quasi quattro anni dopo vissuti sempre con Goliarda: saranno loro due, sole, quando Maria muore: “si è scrollata la vita di dosso”, sono le parole di Goliarda che vive da molto tempo con Cito Maselli. È scivolata via in silenzio ma il funerale è stato un ultimo pezzetto della sua vita: bandiere rosse, un mare di garofani rossi: tantissime compagne e compagni. C’è Umberto Terracini che ora presiede l’Assemblea Costituente. Ci sono Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, due futuri Presidenti della Repubblica.

 

Così Maria Rosa conclude:

Ancora sento la tua voce che si alza in mezzo a noi, attorno al tavolo di Adele. La pace mente … C’era qualcosa che si nascondeva dentro l’aspra fermezza delle tue parole. Forse un vecchio conflitto con quella madre che ti aveva nutrito a intelligenza e volontà di ferro? Ormai sul campo di battaglia eri rimasta solo tu. … con la voglia di essere lei. Il bisogno di non essere lei.

M.G.G.

 

 

 

 

 

 

 

 


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