In Birmania giorni intensi di confronto dopo 10 mesi di regime militare

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Giorni intensi e pieni di incontri quelli che si sono consumati in Birmania, ormai da 10 mesi di regime militare. E’ di questa mattina (16 novembre) la conferenza stampa del National Unity Consultative Council, l’organismo composto da 28 organizzazioni e gruppi democratici, che raccoglie tutte le forze politiche, i parlamentari, il governo di unità nazionale, i sindacati, le organizzazioni delle donne e le organizzazioni etniche armate. Un organismo, che da aprile guida le scelte del Governo di Unità Nazionale e ha messo a punto e presenterà a breve la nuova Carta Democratica e Federale e una strategia in tre fasi, che mira a: sconfiggere la giunta, attuare un percorso di transizione ed in fine a realizzare una Unione democratica e federale. Una conferenza stampa per illustrare gli obiettivi e l’importanza storica di questa coalizione politica, che per la prima volta nel paese è riuscita non solo a far dialogare, ma a far lavorare insieme quelle forze ed organizzazioni che fino a prima del golpe non dialogavano neanche.
Nei giorni scorsi alcuni giornali avevano riportato una fake news, ben costruita e inquietante. Tre funzionari del defunto Myanmar Peace Center, con forti legami con i militari ed incaricati durante il primo governo di transizione del 2012, dei negoziati di pace tra l’esercito e le organizzazioni etniche armate, hanno denunciato in una lettera alle diplomazie in Birmania, di essere stati minacciati di morte dalle People Defence Forces, il braccio militare del governo di unità nazionale. Un’accusa ben confezionata che mira a screditare la resistenza birmana e ancora di più il NUG. Certo in alcune località vi sono state uccisioni stragiudiziali di informatori e spie, ha affermato dal Ministro delle Risorse Naturali del NUG “ma questo è il risultato di una società caotica priva dello stato di diritto, che non siamo in grado di controllare”.
Altre novità hanno affollato il passato weekend e l’inizio di questa settimana. In primis l’ arrivo a Naypyitaw, senza alcun preannuncio di Sun Guoxiang, inviato speciale per gli affari asiatici cinese, che a quanto pare sta cercando di convincere il capo delle forze armate birmane ad attuare i 5 punti dell’accordo sottoscritto con l’ASEAN ad aprile scorso. Nella capitale birmana, c’è anche il Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri tailandese, Don Pramdwinai e l’inviato speciale del Giappone per la riconciliazione nazionale Yohei Sasakawa. Un frequentatore e negoziatore accettato dai militari, soprattutto per le vicende dei Rohingya, che ha visitato anche alcuni campi di rifugiati Rohingya a Sittwe, nel Rakhine.
Da ultimo ieri il comandante in capo delle forze armate, Generale Min Aung Hlaing ha ricevuto una delegazione presieduta dal presidente della commissione congiunta per la cooperazione tecnologica militare Russia-Myanmar.
La missione ha discusso “del miglioramento della cooperazione tecnologica militare esistente tra le forze armate di entrambi i paesi, l’assistenza della Russia nella fornitura di risorse umane e tecnologie per l’aggiornamento e modernizzazione delle forze armate, la cooperazione di entrambi i paesi nel settore della difesa e un aumento della cooperazione economica in tutti i settori”. Quanto basta per preoccupare soprattutto che si occupa di scenari geopolitici asiatici ed oltre.
Eppure la stampa internazionale ha cancellato dalle pagine dei giornali e dei notiziari televisivi la crisi birmana, dedicandole, se va bene qualche trafiletto. Non si può certo dimenticare quando però nel recente passato, proprio la stampa internazionale si è prestata – ignara- ad avallare una strategia dei militari birmani, che mirava alla delegittimazione della figura di Aung San Suu Kyi a livello internazionale, per il genocidio Rohingya, commesso dagli stessi militari, con l’obiettivo di preparare il colpo di stato militare. Aung San Suu Kyi, agli arresti dal 1 febbraio scorso, è stata ulteriormente incriminata ieri per frode elettorale, accusa che si va ad aggiungere a quelle precedenti di violazione dei segreti di Stato, delle regole sulla pandemia e per possesso di telefoni non autorizzati etc.
Nei giorni scorsi un tribunale speciale a Naypyitaw, ha condannato Il portavoce dell’NLD Win Htein a 20 anni di carcere per tradimento. Wint Htein è in sedia a rotelle ed ha bisogno di ossigeno per respirare ed ha una serie di altre gravi patologie.
Ieri finalmente invece si è avuta la liberazione di Danny Fenster, giornalista americano, direttore della rivista online Frontier Myanmar, condannato recentemente a 11 anni di carcere per incitazione alla violazione delle leggi sulla immigrazione e riunioni illegali. Fenster è stato liberato a seguito della visita privata in Myanmar dell’ex governatore del New Mexico Richardson. Una visita molto criticata perché utilizzata strumentalmente dalla giunta per mostrarsi benevola nei confronti di un cittadino americano. La Myawaddy TV, di proprietà dei militari, ha affermato che a Fenster è stata concessa un’amnistia a seguito delle richieste di Richardson e di due rappresentanti giapponesi “per mantenere l’amicizia tra i paesi e per sottolineare motivi umanitari”. Operazione che non intacca la gravità dei crimini contro l’umanità che giunta continua a perpetrare quotidianamente.
L’orologio del sito dell’Associazione dei Prigionieri politici birmani, che scandisce quotidianamente il numero degli oppositori in carcere e delle persone arbitrariamente uccise, continua a salire. Al 15 novembre il numero di vittime innocenti della brutale violenza dell’esercito birmano era salito a 1.265 vittime e 10.184 persone arrestate di cui ancora oggi 7.291 in carcere, compresi altri 47 giornalisti, che hanno la sola colpa di aver raccontato cosa sta avvenendo nel paese. Eppure neanche questo scuote la categoria dei giornalisti. Un recente rapporto dell’Associated Press, non ripreso dai molti esperti di questioni internazionali, documenta i numerosi casi di tortura da parte delle forze di sicurezza, con resoconti credibili e coerenti della tortura di 28 detenuti rilasciati negli ultimi mesi, con informazioni provenienti da vittime, analisti medico-legali e disertori militari che hanno assistito agli abusi. Diverse donne rilasciate hanno descritto gli abusi subiti in un centro di interrogatorio a Yangon, comprese finte esecuzioni e aggressioni sessuali. Mentre la maggior parte delle torture si è verificata all’interno di complessi militari, il Tatmadaw ha trasformato anche strutture pubbliche, tra cui sale delle comunità e un palazzo reale, in centri di interrogatorio, hanno detto i prigionieri. Nel villaggio di Khatea, nello Stato Shan, alcuni abitanti, che non avevano potuto fuggire dal villaggio perché anziani, sono stati sequestrati, bendati e costretti a camminare davanti alle truppe legati ad una corda e usati come scudi umani.
Il tutto mentre la giunta, impermeabile alle pressioni internazionali e alla attuazione dell’accordo in cinque punti, firmato con l’ASEAN il 24 aprile scorso, si prepara a fare piazza pulita dell’NLD, nonostante gli avvisi contrari persino di Pechino, e a intensificare lo scontro armato. Secondo Asia Times, l’esercito birmano “sta cercando di riaffermare un dominio strategico a lungo dato per scontato, ma che settimana dopo settimana fino alla metà del 2021 è andato svanendo, in modo allarmante. Con l’Operazione Anawahta, in onore del fondatore della nazione birmana salito al trono nel 1014. L’esercito sta preparando un’offensiva pesante contro le Forze Popolari di Difesa (People Defense Forces). L’operazione ben preparata nelle basi militari di Pakokku, Monywa e Kalay, viene anticipata una strategia di attacco che imita quella utilizzata dall’esercito imperiale giapponese in Cina negli anni 40: brucia tutto, uccidi tutti, saccheggia tutto. Intanto all’ONU dopo un comunicato stampa del Consiglio di Sicurezza, preoccupato della situazione umanitaria nel paese, un Consiglio di Sicurezza che non si arrischia di andare mai oltre appunto i comunicati stampa, si sta preparando una risoluzione della terza commissione dell’Assemblea generale ONU, presentata dai paesi dell’Organization of Islamic Countries soprattutto sulla vicenda mai conclusasi dei Rohingya. Vedremo se questa volta all’ONU si riuscirà a fare qualche passo in avanti.


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