2021, che anno sarà? 

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Bella domanda chiedersi che anno sarà il 2021! Tutto dipende dalla pandemia e da quando riusciremo a sconfiggerla, a vaccinare buona parte della popolazione globale e a tornare quanto meno a una parvenza di normalità. Il mondo di prima, sinceramente, non ci affascina né ci attrae minimamente, pertanto ci auguriamo di cuore che sia stato seppellito dal Covid e che di esso torni in auge unicamente la mobilità. Anche in quel caso, tuttavia, dovrà trattarsi di una mobilità diversa, sostenibile, meno opulenta, meno all’insegna della ricchezza e dell’individualismo sfrenato, con più treni e meno aerei, meno inquinamento, la predilezione di alberghi di buon livello sugli alberghi di lusso e sugli Airbnb, una sana valorizzazione delle diversità che compongono la vera ricchezza del mondo globale, multiculturale e multietnico nel quale viviamo e la sconfitta dei ritmi e degli schemi che ci avevano resi automi frenetici e mentalmente instabili.
La pandemia è stata un male assoluto ma, se sapremo sfruttarla a dovere, fatto salvo il dolore per il numero esorbitante di morti cui abbiamo assistito, potrebbe lasciarci comunque in eredità un mondo meno disumano rispetto a prima. Il che è difficile che si verifichi, almeno in Italia, se non riusciremo ad avere un minimo di stabilità politica e di sicurezza sociale, se non riusciremo a garantire adeguati ristori alle categorie messe in ginocchio dalla mancanza di clienti e turisti e se non sapremo combattere la disperazione latente e profonda che attanaglia milioni di persone e dalla quale derivano i dati agghiaccianti resi noti dall’ultimo rapporto del Censis.

L’Italia, senza figli, senza un serio rinnovamento complessivo, senza la capacità di guardare al domani con ottimismo e speranza, senza la forza di tornare a crescere, in base a una crescita equa e sostenibile, senza un nuovo pensiero politico e democratico e senza una scuola e un’università all’altezza delle sfide globali che siamo chiamati a fronteggiare, rischia di diventare un ex paese. È un destino comune a molti in Occidente: basti pensare alla crisi devastante che ha colpito una Francia in guerra con se stessa, non più patria dei lumi e del pensiero razionale ma Nazione votata al lepenismo e all’imbarbarimento più assoluto, con a capo un Macron che ha già ampiamente deluso e tradito le aspettative, una sinistra assente, un movimento verde incompiuto e una destra arrembante. E anche alla stampa francese, più libera e autonoma della nostra, non resta che prendere atto di questo declino e descriverlo con toni amarissimi e crescente preoccupazione per ciò che potrebbe accadere di qui a un anno.

Capiremo in autunno che Germania sarà, considerando che, con ogni probabilità, siamo giunti all’epilogo dell’era Merkel, la “Mutti” che ha saputo mettere d’accordo cristiano-democratici e socialdemocratici in disarmo ma anche verdi e in parte liberali e la cui stagione di governo è stata caratterizzata da profonde riforme del sistema Paese ma senza le asprezze e le fesserie del liberista Schröder, il peggio del peggio che abbia mai espresso l’SPD, schiavo della Terza via blairiana e capace di condurre una gloriosa tradizione politica a non toccare palla per tre lustri.

Oltreoceano vedremo all’opera Joe Biden e Kamala Harris e, in questo caso, non abbiamo dubbi sul fatto che saranno senz’altro migliori dei predecessori, come abbiamo già avuto modo di notare nell’approccio alla pandemia, al vaccino, all’uso della mascherina e alla ripresa delle relazioni internazionali che Trump aveva colpevolmente accantonato per quattro anni. Diciamo che in novembre abbiamo tirato un grosso sospiro di sollievo e che il mondo ci è sembrato nuovamente in asse, il che non è poco, specie se si considera che siamo entrati negli anni Venti, ossia nel decennio che, nel Novecento, condusse il mondo occidentale nel baratro della dittatura e gli Stati Uniti sull’orlo dell’abisso, fra depressione economica, e non solo, e livelli di disoccupazione spaventosi.

Ne sapremo di più della ruggente Cina di Xi Jinping, che entro il 2028 dovrebbe superare gli Stati Uniti e diventare la prima potenza mondiale, della nuova Africa, ancora afflitta dai vecchi conflitti ma, al tempo stesso, caratterizzata da un’incredibile volontà di vivere e di rinnovarsi, del Sudamerica finalmente libero, con Biden, di esprimere, almeno in parte, le proprie potenzialità, e del Medio Oriente in cui si agitano due attori irrequieti come l’Iran e Israele, su cui pesa l’incognita delle imminenti elezioni anticipate, e in cui ancora non si sono dissolte le scorie lasciate sul terreno dalla sconfitta dell’ISIS in Iraq e in Siria.

Guarderemo, infine, con crescente preoccupazione a quanto sta avvenendo in Nord Africa, là dove dieci anni fa esplosero le Primavere arabe e dove oggi fanno il bello e il cattivo tempo regimi strazianti, non meno dei precedenti, come quello del generale al-Sisi, le cui menzogne sul caso Regeni e il cui accanimento contro Patrick Zaki non sono più in alcun modo tollerabili.

Ci godremo, infine, un bellissimo anno di sport, fra Europei, Olimpiadi e Nations League, con la Nazionale di Mancini nuovamente ai livelli che le competono e l’unico rimpianto legato all’apatia delle Rosse di Maranello, lontane anni luce dai fasti schumacheriani ma persino delle vittorie dell’onesto finlandese Raikkonen.
Mai come in questo momento, mi vien voglia di citare il titolo di un film di Lina Wermüller, che senza dubbio rispecchia il sentimento di molti: “Io speriamo che me la cavo”.

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