Arrigo Levi, intellettuale e giornalista, generoso appassionato della vita

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Detto così, per un uomo tutt’altro che privo di senso pratico, scrittore di forti sentimenti etici e dotato di un’eloquenza poliglotta, più che un vezzo può apparire un vizio letterario di quelli che lui aborriva, ma il carattere che ha segnato profondamente la sua vita è stata certamente la passione con cui ne ha vissuto ogni momento. Più volte diventando protagonista di quelle verità che con pari intensità ha cercato di approfondire in prima persona tanto negli studi quanto nelle vicende quotidiane italiane e internazionali. La solare bonomia che quando necessario non gli impediva di esprimere giudizi affilati, senza tuttavia smettere mai il sorriso sulle labbra, poteva lasciar interdetti il redattore de La Stampa, che si è trovato a dirigere nei terribili anni di piombo, cosi come il suo amico Henry Kissinger.

Per me è stato più che il direttore con il quale negli oltre vent’anni di lavoro a La Stampa ho trovato maggiore consonanza (che non è poco dire), è stato l’interlocutore più fecondo anche e forse soprattutto quando ci siamo trovati a dissentire su qualche giudizio politico che emergeva dalle mie corrispondenze dall’America Latina e poi dall’Unione Sovietica, dove lui stesso mi designò. Non erano anni facili, né questioni di poco conto. E Arrigo conosceva benissimo tanto il Cono Sud americano quanto il regime sovietico: a Mosca era stato da giornalista prima di me e i dirigenti del PCUS ne conservavano ancora il ricordo, tra l’ammirazione e il sospetto; a Buenos Aires aveva trascorso la sua adolescenza e prima giovinezza con la famiglia che in fuga dall’Italia vi aveva trovato rifugio dalla leggi razziali del fascismo. E vi è tornato ogni volta che ne ha avuto l’occasione

A mandarmi a Buenos Aires era stato il suo predecessore, Alberto Ronchey, vincendo timori e perplessità varie (vi avevano appena assassinato il direttore generale della Fiat, Oberdan Sallustro). Giornalista innanzitutto, si era infine convinto che l’imminente ritorno di Peron dall’esilio spagnolo in Argentina e le sempre più drammatiche vicende del governo di Salvador Allende in Cile, avrebbero preteso sul giornale lo spazio fino ad allora dedicato alla guerra in Vietnam, incanalata ormai nelle trattative di pace. Con Arrigo il dialogo divenne però quasi quotidiano, malgrado in quel tempo le comunicazioni fossero ancora piuttosto farraginose. Il 25 maggio 1973, con il trionfo delle forze popolari e la sconfitta della dittatura militare dei generali Ongania, Levingston e Lanusse, la liberazione dei detenuti politici, Arrigo mi fece correggere solo il nome di una strada.

Possedeva una memoria prodigiosa: ricordava di averla percorsa un quarto di secolo prima, in un furgone-cellulare della polizia peronista che l’aveva arrestato insieme a molti altri studenti sorpresi a manifestare per la totale libertà d’insegnamento. Arrigo era e rimaneva anti-peronista, nondimeno non aveva assunto acriticamente la semplicistica equazione peronismo=fascismo, fatta propria (salvo rare eccezioni) tanto dai liberali quanto dai marxisti d’ogni sfumatura (e ancora ampiamente vigente nella pubblicistica odierna all’interno del famoso e fumoso termine populismo, se privo d’aggettivazioni). La disponibilità a discutere il processo dialettico allora in corso tra la dottrina del vecchio generale, intrisa di autoritarismo personalista e corporativismo interclassista, e le istanze sociali che scaturivano dalle stesse necessità di sviluppo complessivo di una società piagata dalle disuguaglianze, era la sigla della sua onestà intellettuale.

Laico e miscredente rispettoso epperò dichiarato, Arrigo non era niente affatto estraneo alla dimensione religiosa (aveva studiato anche teologia). Non agli aspetti rituali e neppure a una tensione verso l’assoluto che non sembrava agire nel suo temperamento; bensì in quella mistica che guarda alla sacralità dell’esistenza umana come essenza della stessa libertà. In cui ha creduto in tutti i suoi aspetti, fino a farne un canone di lettura del Novecento, per lui tutt’altro che breve e comunque particolarmente gravido di ammonimenti, come testimoniano gli innumerevoli libri, articoli, conferenze offerte con spirito pedagogico ancora nei lunghi anni in cui è stato consigliere di due capi di stato, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Il Quirinale è stato un ottimo osservatorio per qualche mia conclusione sul mondo, mi disse l’ultima volta che andai a prendere un caffè a casa sua.


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