Perché non dico «I can’t breathe» ma Black Lives Matter

1 0

È ormai chiaro che dopo l’omicidio di George Floyd, avvenuto il 25 maggio scorso, gli Stati Uniti non saranno più quelli di prima. L’esecuzione di Floyd non è un caso isolato, ma piuttosto l’ennesima conferma che il razzismo è sistemico: persino l’ex presidente George W. Bush l’ha ammesso. Per questo motivo migliaia di attivisti stanno manifestando da giorni, mettendo in difficoltà il presidente Donald Trump, che preoccupato per la possibilità di non essere rieletto in novembre ha prima cercato di mettere il paese contro i rivoltosi scagliandosi contro la composita comunità Antifa e promettendo di dichiararla un’organizzazione terroristica, poi si è chiuso in un bunker per meno di un’ora, dopodiché ha tentato la via della fede cristiana brandendo una bibbia davanti ad una chiesa che in realtà non ha mai frequentato.

Il tutto mentre schiera l’esercito (che non risparmia nemmeno i giornalisti), farnetica su Twitter e intima alla moglie Melania di esibire un falso sorriso di fronte alla stampa, come se nulla di particolare stesse succedendo a poche centinaia di metri da loro. Ormai costretto a far sgomberare con la forza le strade per evitare di essere contestato quando decide di intervenire in pubblico, dopo quasi una settimana di proteste estese a tutti gli Stati e anche all’estero si è superato twittando «La mia amministrazione ha fatto per la comunità nera più di qualsiasi altro presidente dopo Abraham Lincoln». Questo sarebbe il momento perfetto per i leader occidentali per far cadere definitivamente ciò che rimane del cosiddetto impero americano, arginando il loro omologo da sempre razzista, classista e misogino e schierandosi dalla parte di chi subisce diverse forme di esclusione, dall’essere oggetto di pregiudizi quotidiani all’essere obiettivo dei violenti, come dimostrano anche i report commissionati proprio dagli organismi europei, in cui l’afrofobia emerge come questione sociale che incide e uccide ovunque.

Trump e i suoi sodali sovranisti, in definitiva, sono solo una parte – seppur tremendamente significativa – del problema: la persecuzione delle persone razzializzate ha una lunga storia e la violenza è materia per tutti i governi. La presidenza del giurista afrodiscendente Barack Obama conferma che i diritti non sono mai acquisiti e gli attivisti di Black Lives Matter sanno per primi che, come dice Angela Davis, la libertà è una lotta costante. Se siamo bianchi però, dovremmo riconoscere che il nostro privilegio di nascita ci protegge, e chiederci quale sia il modo più opportuno per essere parte di questa battaglia in qualità di alleati. Esattamente come al Pride, quando non può essere una persona cisgender (ossia non trans) a parlare al posto delle persone transgender, o durante la Giornata della memoria, quando non si può pensare di silenziare – almeno per ventiquattr’ore – chi è parte delle comunità disprezzate dal nazifascismo. Già nelle prime ore delle proteste di piazza a Minneapolis alcuni hanno chiesto agli alleati bianchi di non postare nulla di originale sui social nella giornata di domenica 31 maggio, ma di condividere i contenuti diffusi dai neri, ad esempio retwittando i video dei discorsi pubblici di Black Lives Matter. Una più partecipata adesione si è avuta martedì 2 giugno, quando su iniziativa di due professioniste afrodiscendenti dell’industria musicale, Jamila Thomas e Brianna Agyemang, i social si sono popolati di quadrati neri per dire che l’arte deve fermarsi quando un evento come la brutalità della polizia sui manifestanti lo impone. La scelta di far partire il #blackouttuesday proprio dal settore musicale è emblematica: i talenti delle persone nere sono numerosissimi, ma chi si arricchisce sono in larga parte i bianchi. Mentre l’hashtag diventava virale, ci si sarebbe potuti fermare tutti a pensare a come una situazione come quella dell’ambito musicale sia erede di una Storia che ha visto sempre i bianchi prevalere con ogni mezzo sugli altri, specialmente se si tratta di distribuire la ricchezza.

E ambire all’uguaglianza vorrebbe dire anche che in condizioni particolarmente precarie, come è stato nelle settimane peggiori della pandemia da Coronavirus, non ci siano categorie di persone maggiormente esposte in ragione del legame tra discriminazione economica e appartenenza etnica. È molto più facile però condividere un hashtag che condurre una reale riflessione, ed è proprio con la condivisione di un grido come «I can’t breathe», ossia le ultime parole di Floyd morente per mano di una squadra composta da quattro agenti bianchi, che questo emerge con forza. Per quanto le immagini strazianti dell’assassinio di Floyd abbiano provocato per un attimo in molti di noi una sensazione di immedesimazione nella posizione del subalterno, di fatto se siamo bianchi dobbiamo riconoscere che non corriamo nella stessa misura il rischio di morire in mezzo ad una strada perché l’ha deciso un bianco. E non possiamo appropriarci delle parole di George Floyd se non siamo esposti a quello stesso rischio che l’ha costretto a supplicare per la possibilità di tornare a respirare perché un fatto tanto elementare e necessario alla sopravvivenza come il respiro gli stava per essere tolto. Com’era già accaduto a Eric Garner, sei anni fa a New York, e Adama Traoré, quattro anni fa nell’hinterland di Parigi: uomini neri, morti dicendo le stesse parole di Floyd. Il filosofo Achille Mbembe in un recente articolo ha definito la respirazione un diritto universale e ha detto proprio che dovremmo lottare contro «tutto ciò che sulla lunga durata del capitalismo avrà confinato dei segmenti interi di popolazioni e intere razze a una respirazione difficile, senza fiato, a una vita pesante». L’impunità che i governi garantiscono in molti casi di abuso di potere fa sì che alcuni possano decidere se altri debbano esercitare questo diritto, ma non nasciamo, non cresciamo e non diventiamo adulti tutti con le medesime possibilità a disposizione. Non abitiamo lo spazio pubblico allo stesso modo: una donna può tornare a casa di notte con la stessa tranquillità con cui lo fa un uomo? Gli ispanici possono ambire alle stesse posizioni lavorative dei bianchi? I neri possono divertirsi la sera senza essere nel mirino della polizia?

Le persone rom abitano forse gli spazi urbani allo stesso modo dei gagé? Stefano Cucchi sarebbe stato ucciso se non fosse stato considerato un essere inferiore da chi doveva vigilare sulla sua detenzione? Si arriverebbe a morire nelle carceri, nei CPR, nelle baracche se non ci fossero disparità di condizioni che stanno bene alla maggior parte di noi? No. Come bianchi, quindi, possiamo solo immaginare cosa significhi dover dire «I cant’ breathe». Ma non lo viviamo. Vediamo tutti le stesse immagini, ma non viviamo tutti gli stessi corpi. Dire «I can’t breahe»  non è come dire  «Black lives matter» oppure «No justice, no peace», che servono ad esternare solidarietà. I can’t breathe è un’espressione che ha un significato preciso in bocca ai non bianchi. Ciò che però possiamo fare è andare alla radice di questa disuguaglianza, informarci, prenderci del tempo (e non costringere i non bianchi ad educarci) per approfondire i metodi che sono stati usati nella Storia per subordinare dei soggetti ad altri, come il colonialismo, lo schiavismo, l’apartheid, l’antisemitismo, l’antiziganismo e così via, perché è lì che troviamo la radice delle disparità che portano ancora oggi a trattare alcuni individui diversamente. Se l’Italia non avesse sottomesso altri popoli oggi probabilmente troveremmo tutti assurdo che la recente regolarizzazione dei migranti riguardi in realtà solo chi si spacca la schiena sotto il sole o accudisce i nostri anziani. Oppure il fatto di non avere ancora una legge per la cittadinanza delle persone di seconda generazione. È il momento di mettersi in ascolto. Sarò in piazza domenica, ma non dirò I can’t breathe. Dirò Black lives matter.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21