Dal Marocco alla Turchia, arresti e condanne chiudono un anno di repressione e bavagli per la libertà di stampa

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Il 2019 per la libertà di informazione finisce così come è iniziato. Con condanne e arresti di giornalisti e limitazioni nell’esercitare la professione in tutto il mondo.
Ultimo a finire in carcere nell’anno che sta volgendo al termine Omar Hadi, un collega marocchino accusato di oltraggio alla Corte per aver pubblicato in un tweet l’avviso di indagine nei suoi confronti. Rischia fino a un anno di reclusione.
Il 33enne marocchino, finito già in passato nel mirino delle autorità giudiziarie per aver partecipato attivamente alla primavera araba del 2011, attraverso i suoi articoli e i post sui social continua a denunciare gli abusi di potere e le violazioni dei diritti perpetrate dal Marocco
Si tratta dell’ennesimo episodio di limitazione della libertà di espressione e di informazione nel Paese che cerca di impedire per vie giudiziarie ai giornalisti di fare il proprio mestiere, come nel caso di Ali Lmrabet che è stato costretto a lasciare il Marocco e a vivere da anni in esilio.
La colpa di Ali Lmrabet e Omar Radi? Aver criticato la monarchia marocchina che reprime diritti fondamentali a cominciare da quelli di manifestare degli attivisti dei territori occupati del Sahara Occidentale, strappati al popolo saharawi. Lo scorso luglio durante l’intervento delle forze di sicurezza per disperdere una manifestazione organizzata per festeggiare la vittoria dell’Algeria nella Coppa d’Africa di calcio, che si era trasformata in un corteo di rivendicazione d’indipendenza, una giovane studentessa saharawi ha perso la vita.
Il ‘primato’ dell’ultima sentenza del 2019 emessa in un processo contro giornalisti spetta invece alla Turchia. Lo scorso 27 dicembre sei redattori e il direttore del quotidiano “Sozcu” sono stati condannati a pene dai due ai tre anni e mezzo di prigione con l’accusa di aver collaborato con il movimento Hizmet, guidato dal predicatore islamico Fethullah Gulen, considerato responsabile del fallito colpo di Stato del 15 luglio del 2016.
Il proprietario del quotidiano Burak Akbay, che si trova all’estero, dovrà essere processato separatamente. Quest’ultimo era già stato condannato in
contumacia per terrorismo a 30 anni di carcere in un altro procedimento e sul suo capo pende un mandato d’arresto internazionale.
Chi è rimasto in Turchia non potrà scampare al carcere. Come il direttore di “Sozcu” e il vicedirettore Mustafa Cetin, che dovranno scontare tre anni e quattro mesi di carcere, gli editorialisti Emin Colasan e Necati Dogru tre anni e sei mesi mentre il coordinatore del sito web Yucel Ari, il redattore Gokmen Ulu e il direttore amministrativo Yonca Yucekaleli due anni e un mese.
L’unico imputato assolto l’ex coordinatore del portale online Mediha Olgun.
Secondo l’accusa Yilmaz, Ari e Cetin, Colasan e Dogru avrebbero “favorito”
l’organizzazione terroristica Feto (acronimo con il quale le autorità di Ankara si riferiscono alla presunta rete golpista di Gulen) senza, tuttavia, “far parte della struttura gerarchica”.
“I giudici hanno agito su ordine delle autorità politiche. Ciò che mi rende triste è che abbiamo con questa decisione
annunciamo al mondo intero che non c’è giustizia né democrazia nella Repubblica di Turchia. Quale paese, coscienza o istituzione giudiziaria potrebbe mai ritenere giusta una decisione del genere? Quando hai paura dei media che espongono fatti, inizi a perdere. Erdogan e il suo
entourage sono entrati in questa fase” il commento sul verdetto di Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito repubblicano popolare, la principale
forza dell’opposizione in Turchia.
Se Erdogan continua a imprigionare e a far condannare i giornalisti indigesti, in Italia non sono mancati provvedimenti mirati a limitare l’azione della stampa. Anche se l’attuale governo con l’ultima manovra di bilancio ha rivisto il taglio dei fondi per l’editoria resta il rischio di chiusura o di forte ridimensionamento per alcuni giornali che garantiscono il pluralismo delle voci e delle diversità.
L’autoritarismo, intanto, sembra intensificarsi soprattutto in quella Europa dell’Est, dall’Ungheria alla Serbia, dalla Repubblica Ceca alla Bulgaria, sempre più vicina come modus operandi al regime turco.
Anche da paesi che aspirano a entrare nell’Unione Europea, come l’Albania, arrivano segnali poco rassicuranti. Il parlamento albanese ha approvato la scorsa settimana, tra numerose polemiche e dure contestazioni da parte della comunità dei giornalisti albanesi, un pacchetto anti diffamazione proposto dal governo del premier Edi Rama.
Le nuove norme prevedono emendamenti alle leggi sui media audiovisivi e sulle comunicazioni elettroniche. M’entre si scooters il dibattito in aula, al di fuori del parlamento, decine di operstori dell’inFormazione hanno animato una protesta per contestare le misure introdotte, che riconoscono all’Autorità sui media audiovisive il diritto di controllare e applicare sanzioni anche nei confronti dei media online.
Secondo i giornalisti albanesi, Ama “non può assumere competenze che spettano invece alle corti”.
È superfluo evidenziare come l’intervento del governo sia un tentativo per porre il controllo e la censura sulla stampa in una fase particolarmente turbolenta della vita politica albanese.
Segnale preoccupante se si pensa che la Turchia, al momento considerata la più grande prigione per giornalisti, ha iniziato proprio così la repressione del diritto alla libera espressione.
Ankara, prima di arrivare all’arresto di centinaia di giornalisti, aveva costretto alla chiusura decine di testate e continua a oscurare trasmissioni televisive e a “elargire” multe e sanzioni a pioggia a chiunque critichi in qualche modo il presidente Recep Tayyip Erdogan.
Dal Marocco alla Turchia, dall’Europa dell’Est all’Albania, il tentativo di imporre bavagli ai media liberi, che sia da parte di regimi autoritari o populisti, è lo stesso in tutto il mondo.
E poi ci sono realtà in cui è la vita stessa, oltre che la libertà, a rischio come in Arabia Saudita, Cina, Egitto, Siria, Messico e Afghanistan, quest’ultimo il Paese più pericoloso per i giornalisti
Anche se il numero dei cronisti uccisi è in calo la professione resta a rischio come evidenzia l’ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières.
Secondo l’Ong francese da anni impegnata per la libertà di stampa, il numero di giornalisti uccisi si è praticamente dimezzato, scendendo ad un livello “storicamente basso”.
In totale, secondo il conteggio di RSF, sono 49 i giornalisti assassinati nel mondo nel 2019, 46 uomini e tre donne, contro gli 80 morti del 2018. Resta elevato il numero degli operatori dei media detenuti.
Tra le vittime, quest’anno, 36 erano professionisti, 10 non professionisti e 3 collaboratori.
Il dato in calo dei caduti sugli scenari di guerra va però letto tenendo conto di un fattore: la copertura dei conflitti in Siria, Yemen, Afghanistan si è ridimensionata rispetto al passato. Secondo Rsf quest’anno l’impiego di giornalisti sul campo è stato “meno pesante” portando a perdite in termini di tributo umano meno gravi. La metà rispetto al 2018.
Il Messico è al primo posto tra i paesi considerato “in pace” con il maggior numero di colleghi che hanno perso la vita bello svolgimento del proprio lavoro: 10 i reporter assassinati.
Fin qui i dati.
Chiudiamo con una riflessione: se da un lato bisogna compiacersi del calo inedito dei giornalisti uccisi nelle zone di conflitto, va osservato con grande preoccupazione che il numero di quelli deliberatamente assassinati per il loro mestiere in Paesi democratici è in aumento, un’emergenza che non va sottovalutata e che dovrebbe costituire una vera e propria sfida per le democrazie da cui questi giornalisti provengono.


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