La fibrillazione sudamericana investe anche la Bolivia, delicata cerniera del subcontinente.

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All’ultimo atto della tragicommedia boliviana, il sipario cala con la platea travolta da una rissa. E non è una semplice questione d’ordine pubblico. E’ una mina in una terra di minatori. Ci perdono tutti, ci perde la democrazia. Accecato dal narcisismo, Evo Morales non l’ha voluto capire in tempo. Governare bene, comunque di gran lunga meglio dei predecessori (pur con gesti che dall’esterno della sua cultura possono apparire talora capricci etnici), evidentemente è un gran merito. Ma la democrazia è anche (essenzialmente) un metodo, con le sue forme e i suoi tempi di garanzia che devono essere rispettati. Il cocalero di Cochabamba non l’ha fatto. Così che dopo 13 anni nei quali ha portato a progredire la Bolivia come mai nessuno prima, deve fuggire e lasciarla in balìa di stessa, sull’orlo di una vertigine.

Al momento è nascosto nella sua provincia di origine, protetto dalla gente che più gli è fedele e secondo voci attendibili da una guardia armata che deve garantirgli l’incolumità fisica. Una conclusione della sua parabola di potere che quand’anche non fosse definitiva, mostra una spericolatezza tale da mettere in pericolo gran parte dei risultati raggiunti. Il primo dei quali, già logorato negli ultimi due, tre anni e ora apertamente compromesso dal confronto in atto, è la stabilità del paese. L’intervento dell’esercito che lo ha costretto ad ammettere la discutibilità della sua vittoria elettorale allarga la frattura dalle istituzioni alla società boliviana, già divisa da aperti contrasti economici e diverse sensibilità culturali tra regioni.

Neppure il comportamento dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) è apparso abbastanza lungimirante. Il suo segretario, l’uruguaiano Luis Almagro, un diplomatico esperto e ben intenzionato, non è riuscito a mettere in pratica il principio pur da lui stesso un tempo enunciato: prevenire a qualsiasi costo, perché reprimere ne ha uno comunque maggiore… Una più ampia ed efficiente mobilitazione internazionale attorno alle elezioni boliviane avrebbe probabilmente indotto Morales a rispettare le regole. I forti contrasti scaturiti dall’aperta ostilità del presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, verso il nuovo capo di stato argentino, Alberto Fernandez, di certo non l’hanno favorita. Ma ben di più ha pesato sui vertici dell’OSA il massimo fattore di contenzioso sudamericano: la vicenda venezuelana.

L’irritazione provocata ancor prima della prova elettorale dal tutt’altro che misurato atteggiamento istituzionale di Morales, diventa infatti un dato minore rispetto alla ferita provocata alla capacità di convocazione di Luis Almagro e dell’OSA da quello che fu inteso come il loro auspicio di un intervento armato degli Stati Uniti in Venezuela, nel momento più acuto della crisi umanitaria d’inizio anno. In pratica, l’auspicio di un golpe, sia pure come extrema ratio. Lo stallo venezuelano, con 40 milioni di persone sospese in una drammaticissima emergenza di cui non si riesce a vedere lo sbocco, costituisce ormai lo sfondo ineludibile dell’immediato futuro del subcontinente americano. Ma le cui trame attraversano e sono condizionate in realtà dalle tensioni tra le massime potenze mondiali, da Washington a Pechino e Mosca.


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