Hate speech. I leoni di tastiera vanno messi ai margini della comunità democratica

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Chissà se almeno ora, di fronte alla crescita delle ingiurie e dell’odio in rete, si potrà discutere della questione dell’anonimato senza retoriche o vampate del momento. Non si irriti l’on. Luigi Marattin di “Italia Viva”, ma un’ipotetica legge non serve a nulla. Anzi. C’è il rischio che sotto le migliori intenzioni si appalesi la solita vis censoria di cui si ricordano i prolegomeni nelle tante discussioni sulla diffamazione a mezzo stampa e sul carcere ai giornalisti. Tra l’altro, l’articolo 10 della “Dichiarazione dei diritti in Internet” curata nel 2014 da Stefano Rodota’ permette l’anonimato, perché la Rete è (dovrebbe essere) luogo di libertà. Pensiamo alle tante ribellioni contro le tirannidi nate proprio attraverso Facebook. Tuttavia, il problema esiste. Ed è da affrontare con metodo e con il coinvolgimento di coloro che lavorano sull’argomento da anni. A cominciare dal Garante dei dati personali. Inoltre, va rafforzata la Polizia delle comunicazioni, che già conduce un’ottima attività di contrasto. Tra l’altro, proprio gli interventi coercitivi contro gli odiatori seriali dimostrano che un vero anonimato non esiste. Risalire alla fonte è l’altra faccia della stessa procedura per entrare nei social.
Certamente, serve una lotta culturale e morale che dovrebbe cominciare nelle scuole. La Rai ha un ruolo possibile importante. Insomma, va costruito un clima di opinione severo con la pratica diffusa dell’”hate speech”. I leoni di tastiera vanno messi ai margini della comunità democratica.


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