Jerry Masslo e la battaglia che continua 

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Non aveva ancora trent’anni Jerry Essan Masslo quando trent’anni fa subì, nell’inferno di Villa Literno, il destino atroce tuttora riservato a molti braccianti. Gli ultimi fra gli ultimi, i disperati, le braccia che giungono in Italia per svolgere mestieri che a noi italiani ripugnano, schiavi, masse informi senza diritti e senza dignità. Veniva dal Sudafrica delle discriminazioni e dell’apartheid, sognava un futuro migliore in un Paese che si dimostrò, già allora, inospitale e profondamente xenofobo, un fiume carsico che scorreva nel sottosuolo e che di lì a poco si sarebbe materializzato anche politicamente, modificando per sempre, e in peggio, il nostro immaginario collettivo.
D’estate Jerry si recava in Campania per la raccolta dei pomodori, accettando di lavorare in condizioni disumane, fino a quindici ore al giorno, dovendo raccogliere quaranta casse di pomodori da venticinque chili l’una per mettere insieme quarantamila lire, dormendo nei ruderi dei casolari in campagna, senza luce né servizi igienici e subendo lo sfruttamento e le vessazioni dei clan camorristici che gestivano il mercato della raccolta e il conseguente traffico di carne umana.
Jerry Masslo cadde perché si oppose a una rapina compiuta nel capannone di via Gallinelle da una banda di delinquenti che volevano farsi consegnare da quei poveri cristi i guadagni di due mesi di lavoro, in un clima da stati americani del sud, fra segregazione e pregiudizi disumani, con volantini sparsi per le strade che recitavano: “È aperta la caccia permanente al nero. Data la ferocia di tali bestie […] e poiché scorrazzano per il territorio in branchi, si consiglia di operare battute di caccia in gruppi di almeno tre uomini”.
Aveva dichiarato in un’intervista: “Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo”.
La tragedia di Masslo, con i funerali di Stato chiesti dalla CGIL e svoltisi il 28 agosto alla presenza del vicepresidente del Consiglio Gianni De Michelis e la prima manifestazione anti-razzista, andata in scena a Roma il 7 ottobre, ci consentì di prendere coscienza del lato oscuro della globalizzazione. Ci costrinse, infatti, a riflettere sulla mercificazione del lavoro, sui nuovi diritti da conquistare, sulla ferocia dei ghetti e sulle nuove forme di esclusione e di sfruttamento cui tuttora la politica, e in parte anche il sindacato, non sembra attrezzata a fare fronte.
Il dramma di Masslo, il 20 settembre, causò anche il primo sciopero degli immigrati contro il caporalato al servizio della camorra, il che rese ancora più evidenti le collusioni fra il malaffare e i suoi complici nelle istituzioni, in particolare in determinati contesti.
Quando, nel settembre del ’94, la camorra, infastidita dal clamore mediatico che la vicenda aveva suscitato, diede fuoco al Ghetto di Villa Literno, monsignor Raffaele Nogaro parlò,  non certo d’impulso, di “incendio di Stato”.
Oggi la battaglia di Jerry per la dignità del lavoro, contro ogni forma di schiavismo, di sopruso e di profitto a scapito dell’uomo si posa sulle spalle, solide e credibili, di personalità come Aboubakar Soumahoro ed è la grande lotta del futuro, insieme a quella per il clima e per uno sviluppo sostenibile, le uniche che possano restituire alla sinistra il suo posto nel mondo e la sua ragione storica di esistere.
Qualche tempo fa, sostenemmo che un nuovo Di Vittorio lo avremmo dovuto cercare nei ghetti e nei campi di raccolta della Campania e della Puglia perché è lì che il capitalismo selvaggio mostra il suo vero volto, la sua spregiudicatezza e la sua cinica capacità di allearsi con la feccia dell’umanità, di cui si serve come manovalanza criminale per perpetuare il proprio squallido dominio. Tuttavia, è proprio lì che si stanno palesando, da anni, nuove, straordinarie forme di solidarietà, di resistenza e di riscatto.
A trent’anni dall’omicidio di Jerry, l’unico modo per rendergli degnamente omaggio è, dunque, non lasciare soli gli ultimi del mondo. Lui non avrebbe gradito paroloni altisonanti e affermazioni retoriche ma la concretezza di un impegno in grado di migliorare le condizioni di vita di chi è nato indietro e l’inscrizione di questa missione in un percorso politico compiuto. Di commemorazioni ipocrite ne abbiamo viste abbastanza: sono le migliori alleate del Gattopardo che ci opprime.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Lodovico Ligato, l’ex presidente delle Ferrovie dello Stato che venne assassinato dalla ‘ndrangheta il 26 agosto di trent’anni fa. Avrebbe voluto costruire la ferrovia ad alta velocità bandendo le gare d’appalto internazionali previste dalle regole europee per il mercato unico che sarebbero entrate in vigore il 1° gennaio 1993. Venne prima fermato da un’inchiesta ridicola e, infine, quando si capì che avrebbe voluto rivelare il marcio di cui era a conoscenza, assassinato con ventisei colpi esplosi da una Glock, la pistola in dotazione ai servizi segreti. Sugli esecutori materiali non c’è alcun dubbio. Il problema, come in molti altri misteri italiani, sono i mandanti, i burattinai che hanno avvelenato il nostro Paese impedendogli di spiccare il volo.

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