“Se male utilizzate, le parole possono ferire e uccidere”. L’attualità del Manifesto di Assisi

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“Sentirsi comunità…vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e nel battersi, come è giusto, per le proprie idee rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore.” Tra i tanti motivi per essere grati al Presidente della Repubblica del suo messaggio di fine anno non c’è solo la straordinaria lezione sul significato autentico del termine ‘sicurezza’. La sua denuncia dei discorsi d’odio che sempre più spesso inquinano il dibattito pubblico dà nuova forza all’impegno che in tanti e tante abbiamo preso tre mesi fa, in occasione della Marcia della Pace, varando il Manifesto di Assisi. “Le parole sono pietre, usiamole per costruire ponti”, avevamo detto dal Sacro Convento, mettendo in conto di essere considerati ingenui utopisti che non vogliono guardare in faccia la realtà. Esattamente come traspare dal discorso di Mattarella: “So bene che alcuni diranno: questa è retorica dei buoni sentimenti”.

Il fatto è che a forza di deridere un uso responsabile del linguaggio – come se il ‘politicamente corretto’ fosse ipocrisia formalistica – siamo arrivati a questo stadio: inteso proprio come il luogo dove gli ultras hanno dilagato dalle curve e occupato quasi tutti gli spalti. Troppo spesso la rete è la traduzione digitale delle cinghiate, dei pestaggi e degli agguati che accompagnano gli incontri di calcio, dove gli ‘squadristi da tastiera’ interpretano lo stesso sporco ruolo dai capibanda che abbiamo visto in azione da ultimo nel recente Inter – Napoli.

Non è stucchevole buonismo, allora, ma difesa delle ragioni della convivenza ricordare che “se male utilizzate, le parole possono ferire e uccidere”. Quando il Manifesto chiede che “scriviamo degli altri quello che vorremmo fosse scritto di noi” non sta proponendo di dipingere il mondo a tinte rosa, ma di esercitare il diritto-dovere di cronaca senza brandirlo come una clava. E proprio perché guarda anche alle enormi potenzialità comunicative dell’era di internet, e non solo alla sua deriva violenta, ci ricorda che “il web è un bene prezioso: viviamolo anche come bene comune”, senza cedere il campo ai prepotenti che ne pretendono l’uso esclusivo.

Il Manifesto di Assisi – messo a punto in un anno di elaborazione, che ha coinvolto giornalisti e giuristi, esponenti di organismi istituzionali e animatori di esperienze sociali e sindacali, laici e religiosi – non ha da temere di essere zavorrato da un eccessivo appello alla virtù: perché abbiamo sempre più chiaro che la rudezza – linguistica e non solo – di cui in troppi si fanno vanto sta lacerando il tessuto civile in maniera difficilmente reversibile. L’avversario più temibile del Manifesto è solo uno: è il cassetto in cui rischiamo di lasciarlo, se i dieci punti definiti insieme non sapremo farli diventare collettiva chiamata all’azione, elemento di dibattito e se necessario anche di polemica nei circuiti della comunicazione. Il Manifesto di Assisi ha senso se entra nelle scuole e diventa capace di interpellare i ragazzi sul modo in cui stanno in rete; se riesce a sbarcare nei web e sui social, andando alla prova del confronto nel luogo oggi più significativo.

Anche le parole di Sergio Mattarella ci dicono che questo impegno ha un valore che va ben oltre l’ambito dei professionisti della comunicazione. Stiamo parlando della coesione sociale a rischio, del fatto che la società possa o no “sentirsi comunità” anche in base al modo in cui i suoi componenti comunicano. Ci stiamo chiedendo se e come si passi “dalle community alle comunità”, per rubare a Papa Francesco il titolo che ha posto alla base della Giornata mondiale 2019 delle Comunicazioni Sociali. Sarà il tema sul quale ci riconvocheremo a maggio, di nuovo ad Assisi, per verificare insieme il cammino che avremo saputo far fare al Manifesto.

*coordinatore del comitato tecnico-scientifico di Articolo 21


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