Cpj e Rsf: 251 i giornalisti in carcere, 80 uccisi nello svolgimento del loro lavoro. Resta la Turchia la più grande prigione al mondo

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Un anno terribile per i giornalisti il 2018. Il peggiore dal 2015, secondo Cpj e Rsf, con almeno 251 giornalisti in carcere nel mondo. 168 solo in Turchia, e 80 morti. Questi i dati del nuovo rapporto del Comitato per la protezione dei giornalisti, con sede negli Stati Uniti, che per il terzo anno consecutivo pone in evidenza quanto l’approccio autoritario nei confronti della ‘copertura critica’ delle notizie sia più che un’emergenza temporanea.

Il report a cura di Elana Beiser rileva che nel 2018 i paesi che hanno imprigionato più giornalisti negli ultimi 24 mesi sono la Cina, l’Egitto e l’Arabia Saudita, scalzando la Turchia a cui era spettato il primato lo scorso anno e che rimane il Paese “peggiore carceriere del mondo”.

Il dato della rilevazione annuale svolta a livello globale è il più grave, in termini numerici, degli ultimi tre anni.
La Turchia, la Cina e l’Egitto sono responsabili di oltre la metà del totale degli arresti di operatori dell’informazione per il terzo anno consecutivo.
La maggior parte di coloro che sono imprigionati a livello globale – il 70 percento – si trova ad affrontare accuse anti-governative, come quelle di ‘appartenenza a gruppi terroristi’ o di ‘tentativ0 di sovvertire l’ordine costituzionale’ nei rispettivi  paesi.
Il numero dei reporter finiti in carcere per “pubblicazione di notizie false” è salito a 28 a livello globale, rispetto ai 9 di due anni fa. All’Egitto il primato per aver arrestato il maggior numero dei giornalisti con l’accusa di aver scritto falsità, 19, seguito dal Camerun (4), il Ruanda (3) e uno ciascuno Cina e Marocco.
L’aumento degli arresti per la diffusione di +fake news’ è da inquadrare nell’accresciuta retorica globale sul tema, di cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è il principale fomentatore.
Le carcerazioni in Cina, che nel 2018 ha arrestato 47 reporter, riflette l’ultima ondata di persecuzioni della minoranza etnica uigura nella regione dello Xinjiang. Almeno 10 di loro sono detenuti senza accusa, tutti nello Xinjiang, dove le Nazioni Unite hanno accusato Pechino di “sorveglianza di massa” e “detenzione senza processo” di un milione di persone. Tra cui Lu Guang, un fotografo freelance residente negli Stati Uniti, il ​​cui lavoro su questioni ambientali e sociali in Cina ha vinto prestigiosi premi come il World Press Photo e il National Geographic Prize. Guang è scomparso nello Xinjiang all’inizio di novembre ma le autorità hanno confermato il suo arresto solo la scorsa settimana senza rivelare, né agli avvocati né alla famiglia, la sua posizione o il motivo per il quale è stato imprigionato.
Anche in Egitto spesso  il modus operandi è quello delle sparizioni forzate.  Mohamed Ibrahim, un blogger noto come “Mohamed Oxygen” che indagava e scriveva su brogli elettorali e irregolarità elettorali, nonché su abusi della polizia, è uno degli oltre 40 imputati in un processo dove l’imputazione è di pubblicazione di notizie false per fini terroristici. La detenzione preventivagli è stata rinnovata di 15 giorni in 15 giorni dal suo arresto lo scorso aprile senza essere ancora comparso contro il giudice che deve formulare l’accusa. Ma anche quando si arriva al processo la giustizia egiziana mette in atto lungaggini procedurali poco trasparenti per tenere i giornalisti critici dietro le sbarre. Il fotoreporter Mahmoud Abou Zeid, noto come Shawkan, è in prigione dal 14 agosto 2013, quando fu arrestato per aver scattato foto durante gli scontri tra le forze di sicurezza egiziane e i sostenitori del deposto presidente Mohamed Morsi che hanno causato la morte di un migliaio di persone.

Le autorità lo hanno trattenuto per due anni senza accusa, poi lo hanno messo sotto processo per possesso di armi, assemblea illegale, omicidio e tentato omicidio. L’8 settembre del 2018, un tribunale lo ha condannato per omicidio e appartenenza a un gruppo terroristico a cinque anni di detenzione che di fatto aveva già scontato. Eppure Shawkan è ancora in carcere dove resterà almeno altri sei mesi per multe non pagate relative a danni non specificati durante le proteste del 2013.

Anche l’Arabia Saudita, sotto osservazione del Cpj per  l’omicidio dell’editorialista del Washington Post, Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel consolato di Ryad a Istanbul lo scorso ottobre, ha intensificato la repressione nei confronti dei giornalista, con almeno 16 colleghi arrestati al 1 ° dicembre. di cui 4 donne con la sola colpa di aver scritto sui diritti delle donne nel Regno, incluso il divieto di guidare revocato a giugno.
Tra i più critici contro l’Arabia Saudita

Anche se il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è stato il più feroce critico dell’Arabia Saudita per l’omicidio di Khashoggi, il suo governo continua a imprigionare più giornalisti di qualsiasi altro sul pianeta. Nel solo 2018 in 68 sono finiti in carcere per il loro lavoro e i pubblici ministeri continuano a chiedere mandati di arresto con l’accusa di terrorismo. Nelle ore in cui veniva diffuso il rapporto di Cpj, Reporter senza frontiere ultimava il bilancio sugli operatori dell’informazione che hanno perso la vita durante lo svolgimento della professione. Dopo tre anni il cui dato era in calo, torna a crescere la violenza contro i giornalisti nel mondo: sono 80 i reporter uccisi nel 2018. Nel 2017  erano stati 65.  Numeri in aumento “che mostrano una recrudescenza inedita”, scrive l’ong secondo cui negli ultimi dieci anni sono stati oltre 700 gli operatori dell’informazione uccisi nello svolgimento del lavoro.
Con 15 morti nel 2018, l’Afghanistan si attesta quest’anno come Paese più’ letale per i
giornalisti, seguito da Siria (11 morti) e Messico (9 morti).
Tra gli elementi di valenza notevole, l’ingresso degli Usa tra le nazioni con il maggior numero di reporter uccisi dopo la strage nella redazione di Capitol Gazette, lo scorso giugno ad Annapolis, in Maryland. Oltre a fornire il quadro sulle vittime di omicidi o di attacchi in contesti di conflitti, Rsf evidenzia anche l’aspetto relativo alle violazioni del diritto alla libertà di informazione. Come già rilevato dal Cpj,  il numero di giornalisti detenuti nel mondo è in aumento, portando a 348 il dato complessivo.

Rispetto al rapporto del Comitato per la protezione dei giornalisti, per Rsf il primato di principale prigione al mondo spetta alla Cina,  con 60 giornalisti dietro alle sbarre.

Anche  la cifra degli ostaggi a livello globale è  in crescita, dell’11%, con 60 giornalisti finiti tra le mani dei rapitori contro 53 lo scorso anno. Sui 59 trattenuti in Medio-Oriente (Siria, Iraq Yemen), 6 sono stranieri.
Nonostante la disfatta dell’Isis in Iraq e il forte
ridimensionamento in Siria, sono scarse le informazioni che filtrano sulla loro situazione, salvo per il giapponese, Jumpei Yasuda, tornato libero dopo tre anni di prigionia.

Un giornalista ucraino è ancora nelle mani delle autorità autoproclamate della ‘Repubblica popolare di Donetsk’ (Dnr),
accusato di spionaggio. Tre, infine, sono i casi di giornalisti scomparsi quest’anno, due in America latina e uno in Russia.

Insomma, un annus horribilis che conferma quanto la libertà di informazione sia costantemente sotto attacco e il diritto a raccontare fatti e conflitti in sicurezza, senza timore di ritorsioni o violenze, un’utopia in tante realtà del mondo. Troppe.


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