Turchia, nuove repressioni e vecchi bavagli: nulla è cambiato con la fine dello Stato di emergenza

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Poco più di un mese fa veniva sospeso lo Stato di emergenza in Turchia. Ma poco o nulla è cambiato nella tutela dei diritti di migliaia di persone che continuano a essere nel mirino delle autorità giudiziarie che continuano a indagare e a portare avantii processo sul tentativo di golpe del 15 luglio 2016.
Una nuova operazione contro sospetti infiltrati nelle forze armate della presunta rete golpista di Fethullah Gulen e intellettuali e accademici ritenuti responsabili di propaganda antigovernativa.
La procura generale di Ankara ha emesso nelle ultime 48 ore oltre 50 mandati di cattura, di cui la metà nei confronti di luogotenenti in servizio presso il Comando della gendarmeria.
Blitz per cercare di arrestare i ricercati sono in corso in 16 province del Paese. Finora, secondo l’agenzia Anadolu, le persone portate in carcere sono 23.
Se continua la ‘caccia alle streghe’ che ossessiona il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, seppure impegnato ad affrontare la più grave crisi economica della Turchia degli ultimi decenni, non allenta neanche il bavaglio all’informazione costretta a operare in spazi sempre più ristretti e controllati. Come avvenuto la scorsa settimana durante la “Protesta delle madri del sabato” che si erano riunite per la 700° volta chiedendo la verità sui loro parenti assassinati negli anni ’80 e ’90 dalle squadre della morte. La polizia ha disperso i manifestanti con idranti, pallottole di gomma e lacrimogeni. In piazza a Istanbul c’erano anche di deputati e giornalisti ai quali è stato impedito di arrivare al cuore delle dimostrazioni nonostante avessero mostrato le loro credenziali. Ai colleghi che hanno chiesto di poter svolgere il proprio lavoro, con regolare tessera della Federazione internazionale dei giornalisti, è stato risposto che quanto stava accadendo in quel momento non era “un fatto rilevante per il mondo” e che quel tesserino lì a Istanbul non era valido.
Intanto proseguono i processi a carico di giornalisti accusati di propaganda del terrorismo pur essendo la loro unica colpa l’essere rimasti indipendenti e non essersi piegati al regime. Tra questi Berzan Güneş, redattore dell’agenzia di stampa Mezopotamya, arrestato l’11 giugno 2018 nella provincia di Şırnak, Turchia orientale. Güneş si stava dirigendo verso il centro città per documentare una manifestazione quando la polizia lo ha fermato e portato al comando locale.
Le contestazioni che gli sono state mosse sono scaturire da alcuni suoi post sui social media e foto scattate nelle regioni curde in Turchia e in Siria.
Le fotografie che accompagnavano gli articoli in cui compaiono bandiere e simboli dei gruppi ribelli YPG / YPJ sono state considerate prove di “propaganda terroristica” perché si ritiene che questi ultimi abbiano legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il PKK..
Güneş è apparso in tribunale per la prima volta il 7 agosto 2018, collegandosi tramite il sistema di videoconferenza di Şırnak. Il giornalista ha respinto tutte le accuse e ha aggiunto di aver esercitato solo il suo diritto alla libertà di espressione come sancito dalla Costituzione turca.
Ieri si è svolta una nuova udienza che è stata rinviata per un problema procedurale. Nelle prossime settimane dovrebbe essere emessa la sentenza.
E come sempre Articolo 21 seguirà sia le fasi del dibattimento che il verdetto finale.


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