Sudan/Sud Sudan, nuove minacce per i civili e conflitti senza fine. Presentato in Fnsi il rapporto annuale sulla crisi

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Un quadro tragico quello tracciato oggi nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana con la presentazione del rapporto su Sudan e Sud Sudan nell’ambito di un corso di formazione promosso da Articolo 21.
Una situazione sempre più fuori controllo e con nuovi fronti di crisi. E minacce.
Il governo sudanese, ha denunciato Mohamed Yassin Salih, scrittore sudanese e membro permanente del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite per il movimento di opposizione SLM-N, “è arrivato ad avvelenare gli aiuti umanitari destinati ai profughi in Darfur. Sorgo e riso inquinati da veleni mortali come pure le fonti idriche che avrebbero provocato un numero di morti difficilmente quantificabile”.
Durante la presentazione del rapporto di Italians For Darfur, associazione no profit che dal 2006 porta avanti una campagna di sensibilizzazione sul conflitto e sulla crisi umanitaria nella regione occidentale sudanese, si è parlato anche di libertà di stampa negata. Guido D’Ubaldo, segretario del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti italiani ha posto l’accento sul ruolo che l’informazione è tenuta ad assolvere nell’illuminare terre lontane e, al contempo, il contributo che l’Ordine offre nel fornire agli iscritti momenti di formazione professionale gratuiti e di alto livello. «Anche questo corso – ha evidenziato – rientra nella linea scelta dal Cnog che prevede la possibilità di offrire ai colleghi formazione di qualità a titolo gratuito, sia a distanza che partecipando fisicamente agli eventi. L’Ordine è molto attento alla situazione che si vive in Sudan, perché siamo convinti che il livello di democrazia di un Paese si misuri dal livello della libertà di stampa. Dove non c’è libertà di stampa la democrazia è in pericolo», ha concluso.
Realizzato in collaborazione con Unamid, la missione Onu-Ua dispiegata sul terreno dal 2008, il dossier offre uno spaccato a 360 gradi della crisi, una delle più gravi attualmente in corso nel mondo che coinvolge circa 5 milioni di persone di cui 2,8 milioni di sfollati segregati nei campi profughi.
Nelle 50 pagine del dossier è riportato un dettagliato quadro di quanto accaduto nell’ultimo anno. Dal peggioramento delle condizioni di sussistenza per i 2 milioni e mezzo di profughi, alla repressione della libertà di stampa, con 15 giornalisti arrestati solo nel mese di gennaio, alla persecuzione dei cristiani, con la distruzione di oltre 20 chiese nel 2017, come censito da Open doors, organizzazione internazionale che difende la cristianità nel mondo, che posiziona il Sudan al quinto posto nella lista dei paesi più pericolosi per i cristiani nel 2017.
Lo scorso anno, e i primi mesi del 2018: sono stati caratterizzati da innumerevoli violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione e in particolare verso le donne, che hanno subito una vera e propria recrudescenza della repressione delle loro libertà. La denuncia più grave riguarda la campagna punitiva delle forze di polizia militare in Darfur con la fustigazione arbitraria di almeno un centinaio di donne e ragazze accusate di indossare abiti indecenti nei mercati e nelle strade pubbliche. Anche a Khartoum non sono mancati arresti e condanne nei confronti di donne ‘colpevoli’ di aver indossato abiti non conformi alle disposizioni della legge islamica, la Sharia. Molte donne sono state processate ai sensi dell’articolo 152 del codice penale del Sudan come nel caso dell’attivista per i diritti delle donne Winnie Omar, arrestata il 10 dicembre e condannata a 50 frustate. Solo grazie alla mobilitazione per il suo caso alla fine le autorità giudiziarie hanno deciso di scarcerarla e commutare la pena in una multa.
Nonostante nel mondo non manchino nuovi e continui fronti di crisi, quella in atto in Darfur resta la più vasta e longeva con oltre 300.000 vittime e circa 2 milioni e mezzo di sfollati. Nel 2017, seppure non ci siano state operazioni militari ufficiali delle forze del Governo del Sudan contro i gruppi armati del Darfur, gli scontri non sono mancati e hanno coinvolto le Rapid Support Forces, milizie filogovernative pesantemente armate e arruolate da Khartoum, ufficialmente per contrastare un possibile aumento del flusso di migranti irregolari ma di fatto impiegate nel contrasto alla ribellione ancora molto attiva in gran parte della regione. E Il fronte del contrasto agli oppositori di Bashir si sta ulteriormente ampliando. Le notizie si fanno di giorno in giorno più preoccupanti. Da alcuni mesi sono infatti entrate in azione le Popular Defence Force (PDF) ritenute l’ala militare del National Congress Party (NCP), il partito del presidente Bashir al potere dal 1989, assunto dopo un colpo di stato orchestrato dal Movimento islamico, la sezione sudanese della Fratellanza musulmana, guidato dall’ideologo dell’islam politico Hasan al-Turabi, scomparso lo scorso anno.
Sotto il profilo umanitario la situazione appare incancrenita e con la possibilità della sospensione della missione di peacekeeping che opera nella regione e la chiusura di numerosi progetti le prospettive per la popolazione sfollata appaiono sconfortanti. All’inizio, quando era stata dispiegata nel dicembre del 2007, la missione contava 26 mila caschi blu. Il Consiglio di sicurezza ha poi deciso di ridurre le componenti militari e di polizia portandole a poco più di 23 mila, 19.248 soldati e 4.495 civili. I bisogni più acuti sono stati riscontrati in tutta la regione del Darfur, ma anche negli Stati del Nilo Azzurro, del Sud Kordofan, oltre che nel Sudan orientale e altre aree dove non si registrano fronti aperti di conflitto.
Nonostante gli sforzi per sollecitare l’autonomia delle persone colpite dalla crisi siano diventati sempre più centrali, non si registrano miglioramenti in tal senso. Nel 2017, secondo OCHA, 4,8 milioni di persone hanno richiesto assistenza umanitaria, tra cui 3,1 milioni nel Darfur. Oltre 3 milioni e mezzo di persone sono state aiutate sotto il profilo alimentare e hanno ricevuto sostegno per il sostentamento minimo quotidiano, mentre 2,2 milioni di bambini sotto i cinque anni sono a tutt’oggi malnutriti. In tanti, nelle aree inaccessibili ai cooperanti non ricevono alcun aiuto. Nel distretto del Jebel Marra, dove all’inizio del 2016 sono scoppiate nuove violenze, l’accesso e l’assistenza umanitaria sono pressoché inesistenti, in particolare nelle zone controllate dall’Esercito per la Liberazione del Sudan (SLA) dove migliaia di persone sono abbandonate a loro stesse.
L’instabilità intorno ai confini del Sudan, aggiunge un ulteriore carico umanitario alla crisi con migliaia di sfollati in cerca di asilo e rifugio nel Paese. Dopo lo scoppio del conflitto nel Sud Sudan, nel dicembre 2013, si è registrato un flusso costante di sud sudanesi. Tra il dicembre 2013 e l’inizio del 2017 quasi 500.000 rifugiati sono arrivati in Sudan. Sebbene questi ultimi possano muoversi liberamente all’interno dello stato confinante e stabilirsi in qualsiasi area, la maggioranza ha chiesto asilo nei campi profughi nella regione del Nilo Bianco, altri nel Darfur Est.
Appare paradossale che in uno scenario regionale di scontri interni e crisi umanitaria cronica, vi sia un flusso continuo di sfollati e migranti provenienti, oltre che dal Sudan meridionale, dalla Repubblica Centrafricana, dal Ciad, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Siria e persino dallo Yemen. Ma il Darfur è anche questo.


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