Ricordando  Paolo Ferrari. Per quel che merita

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Fra i più grandi “attori brillanti” e poliedrici del secondo Novecento-  Dotato di  felpata ironia, limpida duttilità di voce, innata vocazione al recitare (senza birignao)

Probabilmente oscurata, messa in ‘disparte’ dalla scomparsa del più celebre Ermanno Olmi, anche il lungo addio del caro Paolo Ferrari, da tempo ‘fuori scena’ per precarietà di salute (lui che, fino ad età avanzata, fu così atletico, seducente, salutista) merita il giusto ricordo.  Iniziando col dire che, a nostro parere, fu uno degli interpreti brillanti (e versatili in altri ambiti) più amati, eclettici, coinvolgenti del teatro italiano nella seconda parte del ‘900.

Accostabile, a pari livello, ai  sapidissimi e irripetibili (per epoche ed antropologia ‘dell’attore’) Alberto Lionello e Renzo Montagnani- e la personale licenza di annoverare, fra essi, anche il dimenticato o per lo più ignorato Duilio Del Prete, che non a caso si alternava con Montagnani nell’irresistibile “sbozzare”   uno dei personaggi cardine (il barista Necchi) del celebre “Amici miei”, concepito da Pietro Germi, ma cui diede anima (cinematografica) la genialità di  Monicelli e compagni.

Di Alberto Lionello non furono mai scandagliati, per quel che meritavano, spessore ed umori di una personalità nevrotica e dolente, capace di sublimarsi nell’ambiguità e ipersensibilità di off-gender ed ‘intrattenitore’ soffuso.

Di Renzo Montagnani, che fu attore di prosa ad ampio ‘spettro’ (di interiori vibrazioni), si tramandano (indegnamente) le partecipazioni ai primi sexy-movie (pudibondi e goliardici) degli anni settanta, partner di Gloria Guida e Edwige Fenech, al solo scopo di rimediare i quattrini necessari a curare un figlio ammalato. E di Paolo Ferrari le indubbie doti di una ‘vocalità’ flautata e felpata che lo imposero (insieme ad Arnoldo Foà e Nando Gazzolo) fra le tonalità più marcate e raffinate   del doppiaggio italiano (senza birignao). Per sua fortuna, Ferrari era stato e continuò ad essere tant’altro- ma, quel che più conta, un autentico e applaudito ‘signore della scena’,  valorizzato solo in parte dal cinema, ma beneficiario di vasta popolarità televisiva.

Nato a Bruxelles nel 1929, per pura coincidenza (suo padre apparteneva al corpo diplomatico) Ferrari – se ne compiaceva senza farne esibizione- fu  precocissimo attore, partecipando (nel 1938) a quell’ “Ettore Fieramosca” di Alessandro Blasetti, campione d’incassi (ed entusiasmo) per il pubblico littorio . L’infaticabile, onnipresente dominus di Cinecittà (amabilissimo in privato, dispotico sul set) lo  aveva notato ‘frequentando’ gli ambienti dell’Eiar, durante le emissioni radiofoniche in cui Paolo era  giovane balilla dalla voce nitida, duttile, già  ‘impostata’ per dono naturale. Da  quel momento, il giovane ‘venuto dal Belgio’ (“e di belle speranze”- smaliziavano i colleghi anziani)  non avrebbe mai più smesso di recitare.

Di alta classe (“impalpabile, spiccata presenza ”) fu  la sua partecipazione  nell’“Opera da tre soldi” di Brecht in una storica edizione (anni sessanta) del Piccolo Teatro di Milano, diretto da Giorgio Strehler. Teatro presso il quale aveva già debuttato a fine anni quaranta con “Il corvo” di Gozzi (sempre diretto da Strehler), partecipando anche al Festival Internazionale de La Fenice di Venezia- e, a stretta distanza, nei “Giganti della montagna” di Pirandello che esordì al Festival Belga di Knokke-Le- Zoute.

L’  ‘apprendistato’ al Piccolo di Milano durerà per tutta la stagione 49-50 con “La famiglia Antropus” di Torthon Wilder, “Riccardo III” di Shakespeare e di nuovo con Pirandello per “Questa sera si recita a soggetto”. Dopo un breve passaggio alla Compagnia Cimara- Gioi- Bagni per “Sogno ad occhi aperti” di Elmer Rice, Paolo approda al Manzoni di Milano per una bizzarra performance dei Gobbi, “Senza rete”, a fianco di Alberto Bonucci, Marina Bonfigli, Monica Vitti, Francesco Mulè ed Anna Menichetti; cui farà seguito, sempre nella capitale ‘nordica’,  la scrittura offertagli da Gianfranco De Bosio per il “Ballo dei ladri” di Anouihl al Teatro Sant’Erasmo.

Approdato ai più redditizi contratti televisivi, Ferrari partecipa in prima battuta ad “Anima nera” di Giuseppe Patroni Griffi (1961), diretto da Giorgio De Lullo per la rinomata Compagnia Dei Giovani (di cui  Romolo Valli e Rossella Falk erano ‘venerati’ primi-attori). Ma di nuovo in palcoscenico per  i  Quattro di Franco Enriquez nel ruolo di Antonio del “Mercante di Venezia” di Shakespeare- proseguito con un eccellente Guildestern in “Rosencranz e Guidersten sono morti” di Stoppard; poi in coppia con Ileana Ghione per una contestata  edizione dell’ibseniano “Rosmarsholm”.

Sempre in auge, intanto, il suo ‘disinvolto’ carisma televisivo: nella serie del “Tenente Sheridan” di Casacci, Caiambricco e Rossi, protagonista Ubaldo Lay e, ancor prima con i quattro episodi “Mont Oriol”, con “L’orchestra delle quindici” e “Biblioteca di Studio Uno”, palestra di canto, trasformismo e parodia ‘sbaragliata’ (ai tempi del monopolio Rai) dal celeberrimo Quartetto Cetra. Età dell’oro – ‘bei tempi’ di baldoria-  in cui la televisione, di sera, era paragonabile alla visita rituale di un amico più saggio, affabulatore e divulgatore di esotiche immagini.

Televisione, tuttavia, nella quale Paolo Ferrari rischia di arenarsi al ruolo di ‘consigliere per gli acquisti’ per   grazia o per colpa della  pubblicità  (strapagata) di una nota marca di detersivi. Presto riscattata dalla partecipazione (nel ruolo del detective-assistente, Archie Goodwin) agli storici sceneggiati di “Nero Wolfe”  in abbinamento  con ‘ ‘immenso’  Tino Buazzelli, tutti diretti (con raro, affabile professionismo) da Giuliana Berlinguer.

Durante la  Guerra, e andando a ritroso, l’attore era stato a fianco di Lilla Brignone, Carmine Gallone  e Sergio Tofano per un divertente e pimpante  “Gian Burrasca”  del  1943. E, alla fine dell’apocalisse bellica,  valorizzato da vecchi e nuovi maestri: ancora Blasetti per “Fabiola” (in cui viene accreditato col nome di Tao Ferrari) e poi Mattoli, Steno, Zeffirelli. Poi animatore di “Rosso e nero n° 2”,  insieme ‘ditta’ con  Nino Manfredi e Gianni Bonagura.

Si intensificavano- come già detto- gli ingaggi radiofonici per novelle da “raccontare” e teatro “da recitare” senza esser visti  –  nei quali Ferrari primeggiava sempre in virtù della suo inconfondibile modo di “esprimersi”, tramite tonalità esercitate  e modulate, raffinando il suo congenito timbro confidenziale e la capacità “mimetico-vocale” di catturare i toni interpretativi ‘all’americana’:  esperienza preziosissima quando si tratterà di doppiare, uno alla  volta, i  grandi divi ‘senza tempo’, da Bogart a Niven, da Burton a Dean Martin, da Gérard Philipe a Roger Moore.

Di ritorno in televisione, all’inizio degli anni sessanta, è “deuteragonista” di Vittorio Gassman nel “Mattatore”- e poi  presentatore del celeberrimo “Giallo Club” in duetto con Ave Ninchi e Paolo Stoppa. Successo che gli darà persino l’imprimatur di presentatore del Festival di Sanremo condotto nel 1960 insieme a Enza Sampò. “Tutti segni di un talento multiforme che incarna una nuova Italia, fiduciosa del futuro, garbata e gentile nei rapporti umani, desiderosa di specchiarsi nell’eleganza innata di quell’attore che sa sempre replicare con un sorriso e una battuta sdrammatizzante”- si legge, e trascriviamo, dall’Enciclopedia dello Spettacolo.

Nel 1964, la grande ma non sfruttata (sprecata, non corteggiata?) opportunità di decollare a livelli esterofili con “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile, su sceneggiatura di Luigi Magni, applaudito a Cannes nel ruolo del bel ribaldo fintosi evirato per meglio spassarsela con le matrone romane di un fescennino, congestionato ‘700 ‘de noanti’.

Al teatro, infatti,  Ferrari  deciderà (valuterà) di non rinunciare, alleandosi con Valeria Valeri per rovistare, nel migliore dei modi, parte del repertorio di Neil Simon e William Gibson, con una gustosa  edizione di “Due sull’altalena”, seguita da “Fiore di cactus” di Barillet e Gredy e da “Sinceramente bugiardi” di Ayckbourn. Dando poi al repertorio italiano l’amabile, amarostica lezione dei due anziani ‘in disuso’ nel petulante, crepuscolare duetto di “Vecchi, vuoti a rendere” di Maurizio Costanzo.

Negli ultimi anni, dopo impeccabili apparizioni nelle miniserie “Oltraggio”, “Incantesimo”, “Notte prima degli esami”, Paolo si era ritirato nella campagna romana, accudito della seconda moglie Laura Tavanti, nel ruolo che – conoscendolo giovanile e ben vitale settantenne- stentiamo a immaginare: patriarca di una famiglia ampliatasi a tre figlioli e diversi nipoti, quasi tutti eredi del suo germe teatrale, e non solo in qualità di attori.


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