Ecco perché non dovremo sottovalutare la mafia in Umbria (Parte Prima)

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Non dovremo sottovalutare la presenza del problema mafioso in Umbria, in primo luogo perché sottovalutare implica vulnerabilità e successivo consenso qualora dopo ci si accorga della presenza stessa del fenomeno. La mafia in questa regione c’è e non si vede, ha imparato a sottrarsi rimanendo silente, ma dobbiamo comunque restare allerta, insegnando a tutti la legalità, raccontando i luoghi e i protagonisti, gli atti e i reati vergognosi da loro perpetrati, le violenze scambiate per onore. Anche la casalinga di Poggiodomo, mentre stira o va a fare la spesa, dovrebbe essere cosciente di quanto la circonda e questo obiettivo può compierlo solo un’informazione libera e coerente.

L’Umbria deve stare attenta. Un monito espresso negli anni Novanta e ribadito all’inizio dell’anno giudiziario corrente dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Perugia Fausto Cardella. Il radicamento prima e le infiltrazioni criminali poi della mafia sono ancora in agguato, soprattutto se tentiamo di paragonare il cuore verde dell’Umbria, solitario e tranquillo, alle altre regioni dello stivale. Un monito che lo stesso Cardella aveva anticipato nel 1994, all’epoca presso la Dda di Perugia, con queste parole: “Proprio questa sua peculiare connotazione di regione tranquilla costituisce l’humus, l’ambiente nel quale più specificatamente e meglio possono realizzarsi determinate attività economiche finanziarie illecite o per lo meno con forti connotati illeciti. Mi riferisco appunto agli investimenti al riciclaggio dei quali noi abbiamo dei segni inquietanti che devono esser oggetto della nostra attenzione”. Un “covo freddo” insomma, come scrivevano nella relazione del 2011 le associazioni umbre in occasioni della giornata in ricordo delle vittime di mafia.

L’Umbria allora deve stare maggiormente attenta, almeno per due ragioni che hanno verosimilmente permesso l’entrata e la diffusione dei clan: la prima ragione, riguarda la massiccia migrazione di camorristi, ‘ndranghetisti, mafiosi e albanesi a partire dagli anni Ottanta; la seconda, la presenza a Spoleto e Terni delle carceri a duro regime dove si applica il 41 bis. A Spoleto, dove tra gli altri, oltre ai parenti dei detenuti, negli anni Ottanta arriva il re della Kalsa Tommaso “don Masino” Spadaro che sarà arrestato per traffico di stupefacenti e dovrà scontare una pena a trent’anni, e successivamente ritenuto il mandante dell’omicidio del maresciallo dei Carabinieri Vito Ievolella.

Conferma così la relazione del primo semestre 2017 della Direzione Investigativa Antimafia (Dia): “In Umbria, i sodalizi di ‘ndrangheta hanno mostrato, nel recente passato, una tendenza evolutiva tanto nella dimensione quantitativa e qualitativa, quanto nella loro operatività, sempre più autonoma. Verosimilmente, la presenza in loco di strutture carcerarie ospitanti personaggi di spicco della criminalità organizzata calabrese avrebbe indotto i familiari o persone ad essi vicini a trasferirsi nell’area. Nell’area di Perugia si è registrata, in particolare, la presenza delle ‘ndrine Giglio, Farao-Marincola, Maesano-Pangallo-Favasuli e Scumaci”.

 

Da Melo Mezzalingua agli Agrò, passando per Farao Marincola e Giglio

 

Si parla per la prima volta di mafia in Umbria negli anni Novanta, quando dopo la stagione delle stragi le organizzazioni criminali iniziarono ad infiltrarsi nei territori dell’Appennino e nelle sue economie. I più brillanti artifici di questo genere sono stati portati a segno dall’ndrangheta, che con la Santa era già riuscita ad entrare nelle logge massoniche fino agli alti poteri dello Stato. Non a caso è proprio negli anni Novanta che a Perugia viene istituita la Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) con l’obiettivo storico di coordinare le procure sotto un unico pool di magistrati.

A destare le prime preoccupazioni, nel 1992 a Perugia, quando venne arrestato Carmelo Caldariera detto “Melo Mezzalingua” del clan catanese dei Cursoti che fece comprendere come la regione fosse stata presa come covo per la gestione del narcotraffico.

Come è stato sottolineato nella relazione conclusiva della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle mafie, a febbraio 2018, allora come oggi, “la mobilità delle organizzazioni criminali, in particolare nelle regioni del centro-nord, avviene seguendo prevalentemente la ‘logica degli affari’ che predilige una razionalità strumentale, finalizzata a ottenere vantaggi e benefici materiali, soprattutto – anche se non esclusivamente – di tipo economico”, cosa che ci permette di comprendere con il segno di poi alcuni dettagli che forse a quel tempo ignoravamo, come ad esempio l’attenzione nel cercare di capire linguaggi dove “la parola migliore è quella che non si dice” e le azioni dei mafiosi come a voler anticiparne le mosse senza finire a negoziare con loro (come si vedrà accadere in altri luoghi nell’ampiamente citata “Trattativa Stato-mafia”).

L’ndrangheta, prima di altre infatti, lasciò i sequestri e gli omicidi per lanciarsi verso l’edilizia e il traffico di droga: due business silenziosi che possono essere portati a termine senza destare alcun tipo di allarme nelle forze dell’ordine. A meno di non ricevere un gran numero di denunce, che aiuterebbe a mitigare l’omertà e la paura, come ha verificato la Regione Umbria nell’andamento della criminalità nel periodo 2007-2016: a preoccupare di molto la situazione a Perugia e Terni che avrebbe visto un aumento delle denunce per estorsione, usura, riciclaggio e ricettazione. A parteciparvi spesso piccoli gruppi locali, ma non sono da escludere interventi mirati da clan ben radicati.

Se nel 2007 nell’ambito dell’operazione “Domino 2” i fratelli Diego e Ignazio Agrò, imprenditori oleari, furono arrestati per una serie di omicidi commessi all’inizio degli anni Novanta in provincia di Agrigento, condannati in primo grado all’ergastolo e poi assolti in appello, sarà solo nel 2010 e nel 2015 che gli verranno sequestrati beni per un totale di 104 milioni di euro. Nel 2010 il sequestro era avvenuto su proposta della Dda di Palermo e il provvedimento firmato dal Tribunale di Agrigento riguardava anche conti correnti, terreni e fabbricati presenti nelle province di Agrigento, Messina, Brindisi e Perugia. Mentre, nel 2015, la Dia di Agrigento sequestrò dalla Sicilia alla Spagna passando per l’Umbria a Spoleto, un ammontare, poi in gran parte revocato, che contava 58 beni immobili tra fabbricati e terreni, 12 imprese e 56 tra polizze assicurative e rapporti bancari illeciti.

Risultano confiscati in via definitiva 106 beni immobili e 6 aziende che si trovano a Perugia, Spoleto. Foligno, Terni, Acquasparta, Massa Martana, Pietralunga, quest’ultimo terreno confiscato alla famiglia De Stefano dove da anni l’associazione Libera Umbria organizza campi di volontariato per raccontare quei luoghi a partire da forme incisive di legalità. E’ così che la polizia coordinata dalle varie procure in quegli anni avrà anche il suo da fare per sgominare le cosche alleate come quella dei Casalesi e di Cosa nostra pian piano in ritirata.

Altra operazione di rilievo risale al 2014 e fu denominata “Quarto Passo” in cui i Carabinieri del Ros coordinati dalla Dda di Perugia arrestarono 61 persone legate alle famiglie albanesi e calabresi contestandogli usura, truffa, bancarotta fraudolenta, estorsione, tutti aggravati dal metodo mafioso.

La provincia calabrese dove opera il capocrimine si trasferisce così anche in Umbria tramite le cellule delle ‘ndrine come quella delle famiglie Farao-Marincola e Giglio, balzate di recente alle cronache nel gennaio scorso grazie all’operazione “Stige” coordinata dalla Dda di Catanzaro che portò ad arrestare 169 persone in più regioni, compresa l’Umbria.


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