L’algoritmo del nostro scontento. Una riflessione su social, informazione e violenza

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La libera informazione è sotto attacco in tutta Europa. A pochi mesi dall’omicidio di Dafne Caruana Galizia, giornalista maltese fatta saltare in aria con la sua automobile, è toccato al giovane reporter slovacco Jan Kuciak (nella foto) cadere sotto il piombo dei sicari insieme alla fidanzata Velka Macva. Uccisi nella loro abitazione, nel loro letto. Un’escalation di violenza alla quale stiamo assistendo anche in Italia: dalla testata di Roberto Spada a Daniele Piervincenzi fino agli attentati contro Fanpage.it, passando per minacce e intimidazioni di vario genere. Mentre una inguardabile e sterile campagna elettorale si avvia alla conclusione, è facile notare come il tema della libertà di informazione sia uno dei tanti omissis.

Il dibattito, si fa per dire, sembra avere a cuore soltanto le formule alchemiche del dopo-voto, ignorando i grandi temi strutturali di Italia ed Europa. Nulla sulle sempre più evidenti povertà; sul deterioramento della nostra democrazia (ma quella europea non gode di miglior salute, vista l’avanzata della destra reazionaria in molti Paesi); sul crollo, apparentemente irreversibile, di quel tessuto connettivo di una società avanzata che si chiama welfare e su molti altri temi che non citeremo per brevità.  Un processo di decomposizione del patto sociale che ha origini molto più lontane della crisi epocale iniziata nel 2007 e della quale, nonostante gli ottimistici proclami dei burocrati europei, si fatica a vedere la fine o, per lo meno, una vera inversione di tendenza.  In questo cammino verso il consolidamento di un nuovo autoritarismo economico, politico, sociale e, soprattutto, mediatico un ruolo fondamentale l’hanno avuto e continuano ad averlo i social media.

O meglio i vari algoritmi, tutti top-secret, che li governano.  Il ragionamento che segue necessita di una premessa: nessuno può anche soltanto immaginare di tornare indietro rispetto all’affermarsi del mondo digitale e della rete. Non saranno forme di neo luddismo tecnologico o vagheggiamenti di improbabili arcaici mondi predigitali a salvarci dalla dittatura dell’algoritmo. Ma una riflessione più approfondita e finalizzata a disegnare nuovi modelli industriali e comunicativi non è più rinviabile. Specie per istituzioni come Fnsi e Ordine dei Giornalisti, il cui compito è occuparsi di informazione professionale. Senza moralismi d’accatto, è sotto gli occhi di tutti il ruolo dei social nell’espansione di epifenomeni come il razzismo, l’odio sociale, il bullismo, la reiezione del diverso e del più debole. Un esempio è il perverso meccanismo delle echochambers, luoghi virtuali, ma ad alto tasso di inquinamento ideologico, nei quali attraverso il rifiuto del confronto tra visioni diverse si afferma il monopolio del pensiero unico autoritario e neoliberista.

Se ci limitassimo a questa analisi, però, rischieremmo di non vedere il processo strutturale che è alla base di questi fenomeni subculturali: “La crescente centralità degli algoritmi nelle pratiche organizzative, generate dalla rilevanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione in tutto: dalla produzione alla circolazione di merci e servizi, dalla logistica industriale alla speculazione finanziaria, all’urbanistica, al design e alla comunicazione sociale…”. (Tiziana Terranova, Università di Napoli). In sintesi, l’ormai inscindibile relazione fra algoritmo e capitale.  Tagliando con l’accetta concetti complessi, possiamo comunque affermare che questa relazione ha ormai definitivamente scardinato il vecchio schema del rapporto fra informazione e pubblico, una volta affidato al ruolo centrale del mediatore, nel nostro caso il giornalista (per approfondimenti rimando alle fondamentali riflessioni dei libri di Michele Mezza, da “Media senza mediatori” a “Giornalismi nella rete”). Sempre sintetizzando per comodità, la morte della sacralità della professione, unita ad altri processi come l’automazione, la precarizzazione e la eccessiva semplificazione culturale, ha relegato il ruolo del giornalista a megafono di interessi di cerchie sempre più ristrette e lontane da quelle che una volta avremmo definito “le masse”. In ultima analisi: il giornalista è sempre più solo e abbandonato al proprio destino. Stabilire una connessione fra processi digitali nell’industria, nella cultura e nella comunicazione è la necessaria premessa per aggiornare l’analisi di Fnsi e Odg, analisi ancora prigioniera di vecchie e ormai inservibili categorie, utilizzando le quali si rischia non soltanto di non comprendere i fenomeni e quindi di non elaborare politiche all’altezza, ma di sancire la definitiva irrilevanza di Ordine e Sindacato.

Paolo Butturini Vicesegretario Fnsi 


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